Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Anche in una società più decente di questa, mi sa che mi troverò a mio agio e d'accordo sempre con una minoranza. (Nanni Moreti)
Acerca de mim
quinta-feira, 30 de junho de 2011
Still Life With Stranger
Come on, Ulrich, the great octagon
of the sky is passing over us.
Soon the world will have moved on.
Your love affair, what is it
but a tempest in a teapot?
But such storms exude strange
resonance: The power of the Almighty
reduced to its infinitesimal root
hangs like the chant of bees,
the milky drooping leaves of the birch
on a windless autumn day -
Call these phenomena or pinpoints,
remote as the glittering trash of heaven,
yet the monstrous frame remains,
filling uo with regret, with straw,
or on another level with the quick grace
of the singing, falling snow.
You are good at persuading
them to sing with you.
Above you, horses graze forgetting
daylight inside the barn.
Creeper dangles against rock-face.
Pointed roofs bear witness.
The whole cast of characters is imaginary
now, but up ahead, in shadow, the past waits.
of the sky is passing over us.
Soon the world will have moved on.
Your love affair, what is it
but a tempest in a teapot?
But such storms exude strange
resonance: The power of the Almighty
reduced to its infinitesimal root
hangs like the chant of bees,
the milky drooping leaves of the birch
on a windless autumn day -
Call these phenomena or pinpoints,
remote as the glittering trash of heaven,
yet the monstrous frame remains,
filling uo with regret, with straw,
or on another level with the quick grace
of the singing, falling snow.
You are good at persuading
them to sing with you.
Above you, horses graze forgetting
daylight inside the barn.
Creeper dangles against rock-face.
Pointed roofs bear witness.
The whole cast of characters is imaginary
now, but up ahead, in shadow, the past waits.
John Ashbery, Notes from the Air, Selected later poems
198
«Todas estas morais que se destinam ao indivíduo para construir a sua «felicidade», como se diz, - o que são senão propostas de conduta em relação ao grau de perigo em que o indivíduo vive consigo próprio; remédios contra as suas paixões, as suas tendências boas e más, contanto que possuam a vontade de poder e queiram representar o papel de senhor; pequenas e grandes manhas e artifícios, cheirando a velhos remédios caseiros e sabedoria de velhinhas; todas barrocas e irracionais na forma - porque se destinam a «todos», porque generalizam onde não se deve generalizar -, falando todas de um modo incondicional, tomando-se elas próprias por absolutas, todas elas não só temperadas com um grão de sal, mas apenas suportáveis, e por vezes até sedutoras, quando passam a deitar um cheiro exageradamente condimentado e perigoso, a cheirar principalmente ao «outro mundo»: tudo isto, de um ponto de vista intelectual, vale pouco e está muito longe de ser «ciência» e mais ainda de ser «sabedoria», mas é, dito segunda e terceira vez, esperteza, esperteza, esperteza, misturada com estupidez, estupidez, estupidez, - quer se trate dessa indiferença e frieza de estátua para com a loucura incendiária das paixões que os estóicos aconselhavam e prescreviam como antídoto; ou desse estado de deixar-de-rir e deixar-de-chorar de Espinosa, da destruição dos afectos pela sua análise e vivissecção tão ingenuamente preconizada por ele; ou daquela redução dos afectos a uma mediania inócua, na qual poderão satisfazer-se, o aristotelismo da moral; ou até da moral como fruição dos afectos, numa intencional diluição e espiritualização pelo simbolismo da arte, sob forma de música, por exemplo, ou de amor de Deus, ou de amor a Deus ou ao homem por amor de Deus - porque na religião as paixões voltam a ter direitos de cidadania, contanto que...; por fim, mesmo daquele abandono aos afectos condescendente e leviano, ensinado por Hafis e Goethe, esse arrojado soltar de rédeas, daquela licentia morum físico-espiritual no caso excepcional de velhos sábios originais e bêbedos, nos quais isso "já não representa muito perigo." Também isto para o caítulo «A moral como receio».»
Friedrich Nietzsche, Para Além de Bem e de Mal, Prelúdio a uma Filosofia do Futuro
quarta-feira, 29 de junho de 2011
Fondazioni
«Il bisogno di fondazione è solo il bisogno di sicurezza che l'uomo avverte in una situazione di minaccia e di violenza, e la metafisica risponde a questa situazione attraverso un altro atto di violenza, il colpo di mano che tende a impadronirsi delle "contrade più fertili" assicurandosi la conoscenza dei principi da cui tutto dipende. Il bisogno di sicurezza non agisce solo sul piano pratico-tecnico della conoscenza dei principi per dominare il mondo; esso spinge anche, a un livello meno direttamente legato alla pratica, alla ricerca della fondazione anche nel senso più astratto. La fondazione, per ciò che riguarda il mondo esterno, il "non io" delle filosofie idealistiche, viene raggiunta mediante il concetto di sostanza; per quanto riguarda, invece, il mondo più mutevole, per la nostra osservazione, degli stati interni del soggetto, è assicurata dalla nozione di libertà. La libertà è una fondazione del tutto sui generis, giacché in realtà non esprime che la decisione di non andare al di là di certi punti di arrivo dell'analisi, il bisogno di non risalire indefinitamente nella catena causale. Del resto non si tratta, anche in questo caso, di una "decisione" di non risalire all'infinito ammetendo invece la libertà come origine "ultima": la puntigliosità con cui Nietzsche si sforza di riportare alla situazione biologica elementare dell'organismo nel mondo il sorgere dei concetti base della metafisica, si spiega solo col fatto che per lui questi concetti sono il risultato di un lungo processo, le cui origini si confondono in certo modo con le origini stesse della vita, o almeno delle nostra attuale forma di vita. È infatti nel mondo in cui hanno trionfato la ratio socratica e il principio di individuazione contro la continuità e indifferenziazione dionisiaca, che nascono i punti fermi, le limitazioni, anche i conflitti, e quindi il bisogno di sicurezza e di nozioni ultime. Anzi, se teniamo presente il carattere di continuità proprio del dionisiaco, la metafisica appare come il suo rovesciamento in quanto visione che isola i fatti e concepisce il mondo sotto il profilo della discontinuità.»
Gianni Vattimo, Il Soggetto e la maschera
Sátira 9
«Me na andavo a caso per la via Sacra, com'è mia abitudine, ruminando non so più che sciocchezze, tutto assorto; mi viene incontro un tale che conosco solo di nome, mi afferra la mano e mi dice: «Come va carissimo?». «Bene, almeno per ora», gli rispondo, «e ti auguro tutto ciò che desideri.» Poiché mi si appiccica, lo prevengo: «Ti serve qualcosa?». E lui: «Dovresti conoscermi», dice «somo anch'io uomo di lettere». «E per questo», dico io, «hai tutta la mia stima.» Cercando disperatamente di battermela, ora vado più svelto, ora mi fermo e sussurro non so che cosa all'orecchio del mio servo e il sudore mi cola fino ai calcagni. Beato te Bolano, dicevo tra me e me, che ti fuma il cervello, mentre quello gracidava di qualunque cosa gli venisse in mente, mi illustrava le strade, la città. Notando che non gli rispondevo una parola: «Tu», disse, «hai una maledetta voglia di andartene, lo vedo da un pezzo; ma non c'è niente da fare, ti tengo e non ti mollo: ti verrò dietro da qui fin dove devi andare». «Non c'è ragione», gli rispondo, «che tu faccia un giro così lungo; vado a far visita a uno che non conosci, che sta lontano, al di là del Tevere, vicino ai giardini di Cesare.» «Non ho niente da fare e camminare mi piace: ti accompagnerò fin là.» Abbasso le orecchie come fa l'asinello avvilito quando gli cala sul dosso un carico troppo pesante. E quello incomincia: «O io mi conosco poco o tu non farai conto dell'amicizia di Visco e Vario più della mia. Chi infatti sa scrivere più versi di me e più alla svelta? Chi danzare più armoniosamente? Nel canto poi sono l'invidia di tutti, persino di Ermogene». Sarebbe stato questo il momento di prenderlo di petto: «Ma non hai una madre o parenti prossimi che debbano aver cura di te?». «Non ho più nessuno, mi sono morti tutti.» «Beati loro. Non rimengo che io: finiscimi, che tanto pende su di me un triste destino, che mi rivelò quando ero ragazzo una vecchia Sabina, scuotendo l'urna delle predizioni: "Questo qui non lo faranno fuori né funstei veleni, né spada nemica, né il dolor di polmoni o la tosse o la podagra che rallenta i passi; un giorno o l'altro lo distruggerà un chiacchierone. Se è furbo, eviti i loquaci appena avrà l'età della ragione"».»
Horácio, Sátiras, I, 9
terça-feira, 28 de junho de 2011
Desce enfim sobre o meu coração
Desce enfim sobre o meu coração
O olvido. Irrevocável. Absoluto.
Envolve-o grave como um véu de luto.
Podes, corpo, ir dormir no teu caixão.
A fronte já sem rugas, distendidas
As feições, na imortal serenidade,
Dorme enfim sem desejo e sem saudade
Das coisas não logradas ou perdidas.
O barro que em quimeras modelaste
Quebrou-se-te nas mãos. Viça uma flor,
Pões-lhe o dedo, ei-la murcha sobre a haste...
Ias andar, sempre fugia o chão,
Até que desvairavas, do terror.
Corria-te um suor, de inquietação...
O olvido. Irrevocável. Absoluto.
Envolve-o grave como um véu de luto.
Podes, corpo, ir dormir no teu caixão.
A fronte já sem rugas, distendidas
As feições, na imortal serenidade,
Dorme enfim sem desejo e sem saudade
Das coisas não logradas ou perdidas.
O barro que em quimeras modelaste
Quebrou-se-te nas mãos. Viça uma flor,
Pões-lhe o dedo, ei-la murcha sobre a haste...
Ias andar, sempre fugia o chão,
Até que desvairavas, do terror.
Corria-te um suor, de inquietação...
Camilo Pessanha, Clepsydra
Pintura e Sensação
«Há duas maneiras de ultrapassar a figuração (ou seja, ao mesmo tempo o ilustrativo e o narrativo): ou em direcção à forma abstracta ou em direcção à Figura. Cézanne deu um nome simples a esta via da Figura: a sensação. A Figura é a forma sensível na sua relação com a sensação; age de modo imediato sobre o sistema nervoso, que é carne. Inversamente, a Forma abstracta dirige-se ao cérebro, age por intermédio do cérebro, mais aproximado ao osso. Decerto que Cézanne não inventou esta via da sensação na pintura. Mas deu-lhe um estatuto sem precedentes. A sensação é o contrário do fácil e do já pronto, do cliché, mas também do «sensacional», do espontâneo, etc. A sensação tem uma face voltada para o sujeito (o sistema nervoso, o movimento vital, o «instinto», o «temperamento», todo um vocabulário comum a Cézanne e ao Naturalismo), e tem uma face virada para o objecto (o «facto», o lugar, o acontecimento). Ou, dizendo de outra maneira, não tem qualquer face, é as duas coisas numa ligação indissolúvel, é o estar-no-mundo, como dizem os fenomenólogos: ao mesmo tempo. eu devenho na sensação e algo acontece pela sensação, uma coisa por intermédio da outra, uma coisa dentro da outra. No limite, é o mesmo corpo que dá a sensação e que recebe a sensação, é o mesmo corpo que é ao mesmo tempo objecto e sujeito. Eu, espectador, só experimento a sensação entrando dentro do quadro, acedendo à unidade do que sente e do que é sentido. A lição de Cézanne - para lá dos impressionistas - é a seguinte: não é no jogo «livre» ou desencarnado da luz e da cor (impressões) que está a Sensação; pelo contrário, ela está no corpo, ainda que seja no corpo de uma maçã. A cor está no corpo, a sensação está no corpo, e não no ar. A sensação é o que é pintado. O que está pintado dentro do quadro é corpo, não na medida em que o corpo é representado como objecto, mas na medida em que é vivido como experienciando uma determinada sensação (aquilo a que D.H. Lawrence chamava «a maçanidade da maçã».»
Gilles Deleuze, Francis Bacon, Lógica da Sensação
sábado, 25 de junho de 2011
L'Isola di Alcina
«Duro destino è l'avere un destino. L'uomo predestinato avanza e i suoi passi non possono portarlo che Lá, al punto d'arrivo che le stelle hanno fissato per lui, o ai successivi punti d'arrivo, fausti e infausti, nel caso che gli astri gli abbiano decretato, come a Ruggiero, un matrimonio d'amore, una discendenza gloriosa, e pure ahimè una fine prematura. Ma tra il punto in cui egli si trova ora e l'adempiersi del destino possono succedere tante mai vicende, tanti ostacoli frapporsi, tante volontà entrare in campo a contrastare il volere degli astri: la strada che il predestinato deve percorrere può essere non una linea retta ma un interminabile labirinto. Sappiamo bene che tutti gli ostacoli saranno vani, che tutte le volontà estranee saranno sconfitte, ma ci resta il dubbio se ciò che veramente conta sia il lontano punto d'arrivo, il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il labirinto interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che dànno forma all'esistenza.»
Italo Calvino, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, raccontato da Italo Calvino
Símbolo
«Simbolo è parola che raccomando sempre ai miei studenti di usare con molta parsimonia, sottolineandola nei contesti in cui la trovano, per decidere il significato che ivi, e non altrove, assume. In effetti io non so più che cosa sia un simbolo. Ho cercato di definire il modo simbolico come una particolare strategia testuale - di cui ricorderò dopo - un simbolo può essere o una cosa molto chiara (una espressione univoca, dal contenuto definibile) o una cosa molto oscura (una espressione polivoca, che evoca una nebulosa di contenuto).
L'ambiguità viene da origini lontane, è giustificata non solo dall'etimologia di symballein ma dalla pratica stessa che l'etimologia ha ispirato. Ché di quei due pezzi di tessera che si richiamano l'un l'altro, si può dire che essi si ricostituiranno senza ambiguità il giorno che qualcuno li riporrà in mutua presenza e li farà coincidere sottraendoli al flusso della semiosi per farli ridiventare cosa tra le cose; e tuttavia ciò che affascina in ciascuno dei due elementi separati è proprio l'assenza dell'altro, e solo sull'assenza e nell'assenza fioriscono le passioni più incontenibili.
Ma abbandoniamo l'etimologia. Il primo scandalo di fronte a cui ci troviamo è che in certi contesti, in gran parte scientifici, si ricorre all'espressione simbolo per indicare processi semiosici estremamente chiari e incontrovertibili, oggetti che ambigui non sono e anzi aspirano a essere letti nel modo più univoco possibile. Prova ne sia il simbolo chimico, o certe accezioni di simbolo per indicare, in opposizzione all'apertura fluttuante dell'icona, la convenzionalità del segno linguistico o gramatologico.»
Umberto Eco, Sulla letteratura
quinta-feira, 23 de junho de 2011
Confissão
«Daí, sem dúvida, uma metamorfose na literatura: de um prazer de contar e de ouvir, que estava centrado na narração heróica ou maravilhosa das «provas» de bravura ou de santidade, passou-se para uma literatura ordenada à tarefa infinita de fazer erguer do fundo de cada um, entre as palavras, uma verdade de que a própria forma da confissão faz cintilar como sendo o inacessível. Daí também esta outra maneira de filosofar: procurar a relação fundamental com o verdadeiro, não simplesmente em si próprio - em qualquer saber esquecido ou num certo vestígio originário -, mas no exame de si próprio, que revela, através de tantas impressões fugitivas, as certezas fundamentais da consciência. A obrigação da confissão é-nos agora devolvida a partir de tantos pontos diferentes, está agora tão incorporada em nós, que já não a entendemos como o efeito de um poder que nos constrange; parece-nos, pelo contrário, que a verdade, no mais secreto de nós próprios, não «pede» outra coisa senão fazer-se luz; se a não atinge, é porque uma coerção a retém, porque a violência de um poder pesa sobre ela e não poderá articular-se finalmente senão à custa de uma espécie de libertação. A confissão liberta, o poder reduz ao silêncio; a verdade não pertence à ordem do poder, mas está numa relação parentesco originário com a liberdade: estes são temas tradicionais da filosofia, que uma «história política da verdade» deveria reexaminar, mostrando que a verdade não é livre por natureza, nem o erro servo, mas que a sua produção é integralmente atravessada pelas relações de poder. A confissão é um exemplo disto.»
Michel Foucault, História da Sexualidade - I, A vontade de saber
Sangue Welsungo
«Siegmund e Sieglinde giunsero ultimi, tenendosi per mano, dal piano superiore. Gemelli, erano i più giovani d'età: esili come giunchi, mostravano conformazione infantile nonostante i loro diciannove anni. Lei vestiva un abito di velluto rosso bordò, troppo pesante per la sua figuretta e che ricordava nel taglio la moda del Cinquecento fiorentino. Lui indossava un abito grigio e giacchetta, con cravatta di seta cruda color lampone; i piedi snelli calzavano scarpe di vernice e i bottoni dei polsi erano tempestati di brillantini. La ruvida barba nera era ben rasa, sicché anche il suo volto pallido e magro, dalle scure sopracciglia congiunte, conservava il carattere efebico della corporatura. Il capo era coperto di ricci fitti, neri, che allignavano fin giù sulle tempie e nei quali si apriva a forza una scriminatura laterale. Tra i capelli color castano scuro di lei, spratiti in due bande lisce e basse e raccolti sopra le orecchie, era posato un cerchio d'oro dal quale pendeva sulla fronte una grossa perla, regalo di lui; e una pesante catenella d'oro, regalo di lei, congeva uno dei polsi di lui, sottili como di adolescente. Si somigliavano molto: tutti i due avevano lo stesso naso leggermente schiacciato, le stesse labbra piene e morbidamente combacianti, gli stessi zigomi prominenti e gli occhi neri e lucidi. Ma soprattutto simili erano le loro mani, lunghe e sottili: simili a tal punto che quelle di lui non si distinguevano da quelle di lei per nessuna caratteristica virile, ma soltanto per il colore un po' più rossiccio. Ed essi le intrecciavano constantemente, senza provar fastidio della loro tendenza ad inumidirsi...
Thomas Mann, Racconti
terça-feira, 21 de junho de 2011
Desconfiança
«O conceito da desconfiança é a nossa opção em detrimento da certeza, da afirmação, da segurança, da estabilidade e confronta-se com os limites que rasgam a nossa compreensão, fé e razão.
A apreensão da vida no seu próprio domínio implica as posições da subjectividade, da contradição e da descontinuidade, fontes da desconfiança, mas também as possibilidades da objectividade e da identidade, fontes da confiança. Não é possível negar ou subsumir um destes aspectos no outro, são articuláveis. «A faceta negativa do pensamento, que busca a fissura e a ausência do fundamento das crenças estabelecidas, coexiste com a sede de ilusões intelectuais, com o permanente desejo de afirmar algo como verdade.» A confiança aspira a fundar, a desconfiança descobre a falta de fundamento e é possibilidade de meditar sobre o infundado.Estabelecer o percurso da confiança à desconfiança, é percorrer um itinerário desde a necessidade de crer, de tornar a vida suportável, até à vontade de desengano e de viver com o insuportável da vida.»
A apreensão da vida no seu próprio domínio implica as posições da subjectividade, da contradição e da descontinuidade, fontes da desconfiança, mas também as possibilidades da objectividade e da identidade, fontes da confiança. Não é possível negar ou subsumir um destes aspectos no outro, são articuláveis. «A faceta negativa do pensamento, que busca a fissura e a ausência do fundamento das crenças estabelecidas, coexiste com a sede de ilusões intelectuais, com o permanente desejo de afirmar algo como verdade.» A confiança aspira a fundar, a desconfiança descobre a falta de fundamento e é possibilidade de meditar sobre o infundado.Estabelecer o percurso da confiança à desconfiança, é percorrer um itinerário desde a necessidade de crer, de tornar a vida suportável, até à vontade de desengano e de viver com o insuportável da vida.»
João Maurício Brás, A Importância de desconfiar
Lei natural e leis civis
«Altro è primitivo altro à barbaro. Il barbaro è già guasto, il prmitivo ancora non è maturo.
Non bisogna credere che un popolo non sia barbaro perchè non somiglia ad altri barbari (come se i mamomettani non fossero barbari perchè non sono antropofagi). Vedete quante sorte di barbarie si trovano al mondo, laddove la natura è una sola. Perchè questa ha leggi immutabili e fisse, ma la corruttela varia infinitamente secondo le cagioni, e le circostanze vale a dire i costumi le opinioni i climi i caratteri nazionali ec. ec. (9. Giugno 1820).
Una grande differenza tra la legge di natura e le leggi civili, è questa che la lagge civile o umana si può dimenticare o per [119] distrazione o per altro, e infrangerla senza leder la coscienza, (come s'io mangio carne non ricordandomi che sia giorno di magro, o anche ricordandomene, ma per distrazione) laddove la legge naturale non ammette distrazione, e non può accadere che uno la infranga non credendo, perch'ella ci sta sempre nel cuore come un istinto che ci avverte continuamente, e il quale non è soggetto a dimenticanze.
La naturalezza dello scrivere è così comandata che posto il caso che per conservarla bisognasse mancare alla chiarezza, io considero che questa è come di legge civile, e quella come di legge naturale, la qual legge non esclude caso nessuno, e va osservata quando anche ne debba soffrire la società o l'individuo, come non è straordinario che accada.
È osservabile come i francesi mentre sono la nazione più moderna del mondo per costumi ec. abbiano tuttavia quella disposizione antica che ora tutte le nazioni civili hanno abbandonata, voglio dire il disprezzo e quasi odio degli stranieri. Il quale non può tornar loro a nessuna lode, perchè contrasta assurdamente coll'eccessivo moderno di tutte le altre loro opinioni costumi ec. Ed è tanto più ridicola, quanto nei greci finalmente era ragionevole, perchè non avendo conosciuto i romani se non tardissimo, (v. Montesquieu Grandeur ec. ch. 5. p. 48. e la nota) non c'era effettivamente altra nazione che gli uguagliasse di grandissima lunga. E quanto ai Romani è noto che non ostante il loro sommo amor patrio, furono sempre imparzialissimi [120] nel giudicare degli stranieri, anzi ebbero per istituto di adottar sempre tutte quelle novità forestiere che giudicavano utili, quando anche per adottar queste bisognasse lasciare o correggere le loro proprie usanze.»
Non bisogna credere che un popolo non sia barbaro perchè non somiglia ad altri barbari (come se i mamomettani non fossero barbari perchè non sono antropofagi). Vedete quante sorte di barbarie si trovano al mondo, laddove la natura è una sola. Perchè questa ha leggi immutabili e fisse, ma la corruttela varia infinitamente secondo le cagioni, e le circostanze vale a dire i costumi le opinioni i climi i caratteri nazionali ec. ec. (9. Giugno 1820).
Una grande differenza tra la legge di natura e le leggi civili, è questa che la lagge civile o umana si può dimenticare o per [119] distrazione o per altro, e infrangerla senza leder la coscienza, (come s'io mangio carne non ricordandomi che sia giorno di magro, o anche ricordandomene, ma per distrazione) laddove la legge naturale non ammette distrazione, e non può accadere che uno la infranga non credendo, perch'ella ci sta sempre nel cuore come un istinto che ci avverte continuamente, e il quale non è soggetto a dimenticanze.
La naturalezza dello scrivere è così comandata che posto il caso che per conservarla bisognasse mancare alla chiarezza, io considero che questa è come di legge civile, e quella come di legge naturale, la qual legge non esclude caso nessuno, e va osservata quando anche ne debba soffrire la società o l'individuo, come non è straordinario che accada.
È osservabile come i francesi mentre sono la nazione più moderna del mondo per costumi ec. abbiano tuttavia quella disposizione antica che ora tutte le nazioni civili hanno abbandonata, voglio dire il disprezzo e quasi odio degli stranieri. Il quale non può tornar loro a nessuna lode, perchè contrasta assurdamente coll'eccessivo moderno di tutte le altre loro opinioni costumi ec. Ed è tanto più ridicola, quanto nei greci finalmente era ragionevole, perchè non avendo conosciuto i romani se non tardissimo, (v. Montesquieu Grandeur ec. ch. 5. p. 48. e la nota) non c'era effettivamente altra nazione che gli uguagliasse di grandissima lunga. E quanto ai Romani è noto che non ostante il loro sommo amor patrio, furono sempre imparzialissimi [120] nel giudicare degli stranieri, anzi ebbero per istituto di adottar sempre tutte quelle novità forestiere che giudicavano utili, quando anche per adottar queste bisognasse lasciare o correggere le loro proprie usanze.»
Giacomo Leopardi, Zibaldone
domingo, 19 de junho de 2011
Lettre 38
«Marienbad, 20 août 1880.
Ami Gast, dans mon humeur de moissonneur, voire de fête de la moisson, votre lettre apporte se résonance, un peu sombre, il est vrai, mais si bonne et forte qu'aujourd'hui encore, comme toujours, ma méditation sur vous s'apaise et s'achève sur le choral:
«Ce que fait Gast est bien fait,
Juste est sa volonté!» Amen.
vous êtes d'une trempe plus robuste que moi et vous avez le droit d'aspirer à un idéal plus haut. Pour ma part, je souffre atrocement lorsque je suis sevré de sympathie. Et par exemple, rien ne pourra compenser, pour moi, la perte de la sympathie de Wagner, ces dernières années. Si souvent je rêve de lui et toujours dans le style de notre confiante intimité d'alors! Jamais, entre nous, une parole méchante ne fut prononcé, dans mes rêves non plus - mais beaucoup de paroles encourageantes et enjouées et peut-être n'ai-je autant ri avec personne. Tout cela est du passé - et à quoi sert d'avoir raison contre lui certains points? comme si cette sympathie perdue pouvait être ainsi effacée de la mémoire! Déjà auparavant j'avais eu des expériences analogues, et probablement en aurai-je encore. Ce sont là les plus durs sacrifices que la ligne de conduite de ma vie et de ma pensée aît exigés de moi. A présent encore, après une heure d'entretien sympathique avec des êtres qui me sont absolument étrangers, toute ma philosophie chancelle; il me semble tellement absurde de s'obstiner à avoir raison au prix de l'amour et de ne pouvoir communiquer ce qu'on a en soi de plus sérieux pour ne pas s'aliéner la sympathie. Hinc meae lacrimae.
Je suis toujours à Marienbad: le «temps autrichien» m'a retenu!! Pensez que depuis le 24 juillet il y a des pluies quotidiennes et souvent à longueur de journée. Ciel pluvieux, air pluvieux, mais de bons sentiers dans la forêt. Ma santé a de nouveau connu une régression; mais in summa je suis satisfait de Venise et de Marienbad. Il n'a certainement jamais été autant pensé ici, depuis Goethe, et encore Goethe n'a-t-il pas dû se laisser hanter par des choses aussi essentielles - je me sens de loin dépassé moi-même. Un jour en forêt, un monsieur qui passait près de moi, m'a dévisagé d'un regard très aigu; à cet instant, j'ai senti que mon visage devait rayonner de bonheur et que depuis deux heures déjà que j'errais, j'avais ce visage-là. Je vis incognito, comme le plus modeste curiste. Sur la liste des étrangers, je figure comme Monsieur le Professeur Nietzsche. Il y a ici beaucoup de Polonais et, fait étrange, ils me tiennent absolument pour un Polonais, m'abordent avec des formules de salut em polonais et ne veulent pas me croire quand je me proclame Suisse. «C'est la race polonaise, mais Dieu sait de quel côté penche le coeur» - c'est en ces termes que l'un d'eux m'a quitté, tout chagrin.
Le début de septembre me trouvera à Naumburg. Les Overbeck aussi m'y rejoindront, ainsi que Madame Wohrmann (elle déménage de Naumburg et retourne à Venise). Le fils de Madame von Worhmann ainsi que l'ami de ce dernier, O. von Werthern, qui fréquentent le gymnase de Naumburg, viendront habiter chez nous.
Avez-vous les «Hommes du XVIIIº siècle» de Sainte-Beuve? Ce sont de magnifiques portraits d'hommes et Sainte-Beuve est un grand peintre - mais sur chaque figure je vois une courbe qui lui demeure invisible, et c'est ma philosophie qui me donne cet avantage sur lui. Ma philosophie ? Le diable m'emporte! Pour vous, veuille le bon Dieu vous emporter - il prend joie à tous ceux de votre nom.
Fidèlement votre,
F.N.
Friedrich Nietzsche, Lettres à Peter Gast
Efemeridade
«Numa peça célebre, O Caso Makropulos, transformada em ópera por Janacek, Karel Capek explora a psique de uma mulher que herdou o elixir da vida eterna e sobreviveu durante quatrocentos anos, gozando muitas vezes as coisas que os seres humanos visam: prazer, poder, influência e amor. E todas essas coisas se tornaram insípidas com a repetição, o seu coração endureceu em relação a qualquer afecto natural e - sendo imortal - olha para a fragilidade e a carência dos seus amantes mortais com uma atitude fria e cínica repulsa. A sua vida é sem amor, não porque não lhe possam oferecer amor, mas porque ela não pode recebê-lo. Todo o dom, toda a capitulação, todo o sacrifício desapareceu da sua psique e apenas resta a lascívia vazia da longevidade. De repente, apercebendo-se da profundidade da sua infelicidade, resolve abandonar o elixir e deixar a morte ter o seu prémio. E nesse momento torna-se outra vez humana e amável.
A moral tornada explícita em O Caso Makropulos está implícita na arte e na literatura ao longo dos séculos. A poesia, o teatro, a pintura de retratos e a música mostram-nos que a mortalidade está inextricavelmente tecida no esquema humano das coisas: que as nossas virtudes e os nossos amores são as virtudes e os amores das criaturas mortais; que tudo o que nos leva a amarmo-nos uns aos outros, a sacrificarmo-nos, a termos atitudes sublimes e heróicas baseia-se no pressuposto de que somos vulneráveis e transitórios, e que só temos um direito efémero às coisas deste mundo. Nessa base, Leon Kass, o biólogo e filósofo norte-americano, tem defendido aquilo a que chama as «bençãos da finitude» - a ligação íntima entre as coisas que valorizamos e o carácter efémero da vida.»
A moral tornada explícita em O Caso Makropulos está implícita na arte e na literatura ao longo dos séculos. A poesia, o teatro, a pintura de retratos e a música mostram-nos que a mortalidade está inextricavelmente tecida no esquema humano das coisas: que as nossas virtudes e os nossos amores são as virtudes e os amores das criaturas mortais; que tudo o que nos leva a amarmo-nos uns aos outros, a sacrificarmo-nos, a termos atitudes sublimes e heróicas baseia-se no pressuposto de que somos vulneráveis e transitórios, e que só temos um direito efémero às coisas deste mundo. Nessa base, Leon Kass, o biólogo e filósofo norte-americano, tem defendido aquilo a que chama as «bençãos da finitude» - a ligação íntima entre as coisas que valorizamos e o carácter efémero da vida.»
Roger Scruton, As Vantagens do Pessimismo
La scuola
«La scuola, invece, per quelle stesse condizioni di fatto che paiono angustie e miserie, opera con opposta efficacia. Sembra sequestrare l'uomo dalla vita e dà di questa il desiderio e, col desiderio, l'intuizione e l'intelligenza. Sembra mortificare le forze spontanee e creatrici: e, con gli ostacoli che loro oppone, le esercita e invigorisce. Sembra asservire i giovani, privandoli della libertà; ma accresce l'amore per la libertà e ne garantisce il possesso, promovendone la disciplina. Fa stentare, e gli ingegni veri si temprano negli stenti; mantiene l'animo raccolto, e tende per tal modo ad arricchire il mondo interiore (che è quello della scienza e dell'arte), in compenso del mondo esteriore, a cui si è dovuta fare rinunzia.»
Benedetto Croce, Cultura e Vita Morale
sábado, 18 de junho de 2011
Conteúdo e Forma
«Perché il vero è proprio questo: che contenuto e forma debbono ben distinguersi nell'arte, ma non possono separatamente qualificarsi come artistici, appunto per essere artistica solamente la loro relazione, cioè la loro unità, intesa non come unità astratta e morta, ma come quella concreta e viva che è della sintesi a priori; e l'arte è una vera sintesi a priori estetica, di sentimento e immagine nell'intuizione, della quale si può ripetere che il sentimento senza l'immagine è cieco, e l'immagine senza il sentimento è vuota. Sentimento e immagine, fuori della sintesi estetica, non esistono per loro spirito artistico: avranno esistenza, diversamente atteggiati, in altri campi dello spirito, e il sentimento sarà allora l'aspetto pratico dello spirito che ama e odia, desidera e ripugna, e l'immagine sarà l'inanimato residuo dell'arte, la foglia secca in preda al vento dell'immaginazione e ai capricci del trastullo. Ma ciò non tocca né l'artista né l'estetico, perché l'arte non è il vano fantasticare, e non è la tumultuante passionalità, ma il superamento di questo atto mercé un altro atto, o, se cosí piace, la sostituzione di questo tumulto con un altro tumulto, con l'anelito verso la formazione e la contemplazione, con le angosce e le gioie della creazione artistica. È indifferente perciò, o è cosa di mera opportunità terminologica, presentare l'arte come contenuto o come forma, purché s'intenda sempre che il contenuto è formato e la forma è riempita, che il sentimento è sentimento figurato e la figura è figura sentita. E solamente per ossequio verso colui che fece valere meglio d'altri il concetto dell'autonomia dell'arte, e volle affermare quest'autonomia con la parola «forma», contrapponendosi così all'astratto contenutismo dei filosofanti e moralisti come all'astratto formalismo degli accademici, - per ossequio, dico, al De Sanctis, - e altresí per la sempre urgente polemica contro i tentativi di confondere l'arte con altri modi di attività spirituale, si potrà chiamare l'Estetica dell'intuizione «Estetica della forma». Né giova ribattere un'obiezione, che si potrebbe certamente muovere (ma piuttosto con sofisma da avvocato che con acume da scienziato): cioè, che anche l'Estetica dell'intuizione, designando il contenuto dell'arte come sentimento o stato di animo, lo qualifica fuori dell'intuizione e sembra riconoscere che un contenuto, che non sia sentimento o stato d'animo, non si presti all'elaborazione artistica e non sia contenuto estetico. Il sentimento o lo stato d'animo non è un particolare contenuto, ma è l'universo tutto guardato sub specie intuitionis; e fuori di esso nessun altro contenuto è concepibile che non sia insieme una forma, diversa dalla forma intuitiva: non i pensieri, che sono l'universo tutto sub specie cogitationis; non le cose fisiche e gli enti matematici, che sono l'universo tutto sub specie schematismi et abstractinis; non le volontà, che sono l'universo tutto sub specie volitionis.»
Benedetto Croce, Breviario di estetica
sexta-feira, 17 de junho de 2011
Porto
Qui dove imberbi scritturali il peso
registravano, e curvi sotto il carico
in fila indiana sudati braccianti
salivano scendevano oscillanti
scale dai moli agli alti bordi, preso
tra bestemmie e muggiti, della vita
solo un pensiero a me era nocente.
registravano, e curvi sotto il carico
in fila indiana sudati braccianti
salivano scendevano oscillanti
scale dai moli agli alti bordi, preso
tra bestemmie e muggiti, della vita
solo un pensiero a me era nocente.
Cercavo a quello un angolo ridente.
Molti, all'ombra di pergole, ne aveva
la mia città inquieta. Mi premeva
isolarmi con lui, mettere assieme
versi, cavare dal suo male un bene.
Molti, all'ombra di pergole, ne aveva
la mia città inquieta. Mi premeva
isolarmi con lui, mettere assieme
versi, cavare dal suo male un bene.
Spero ancora un rifugio allo stratempo.
Ecco: è stato un miracolo trovarlo.
Tutto, se chiedo, posso avere, fuori
quel mio cuore, quell'aria mia e quel tempo
Ecco: è stato un miracolo trovarlo.
Tutto, se chiedo, posso avere, fuori
quel mio cuore, quell'aria mia e quel tempo
Umberto Saba
Esplendor na Relva
«No liceu de Natalie Wood, onde ela entrava sempre com três livros apertados ao peito, um deles de capa azul, a aula de literatura, nesse dia, não era sobre Os Cavaleiros da Távola Redonda mas sobre Wordsworth e a «Ode of Intimation to Immortality». Deannie / Nathalie chegava de vestido «grenat» muito escuro, gola de rendas. Todas as colegas sabiam - e ela também, embora ninguém lho tivesse dito - que Bud / Warren, incapaz de separar por mais tempo o desejo e o amor, tinha enganado, na véspera à noite, a fome do corpo dela, no corpo de Juanita, única da turma que não se ficava pelos beijos. Nada seria mais, para eles, como antes fora. Como também se diz no filme (noutro contexto), Deannie trazia, debaixo do vestido, o primeiro golpe na sua própria carne.
E é quando todo o mundo vacila à roda dela que a professora a interpela para lhe perguntar o que é que o poeta quis dizer com os versos famosos: «No, nothing can bring back the hour / the splendor in the grass, the glory in the flower.» Para a estúpida e pedagógica pergunta não há resposta ou - a esse nível - só há a que Natalie Wood comoventemente tenta articular. Mas não é nada disso que o poeta quis dizer.
O que conta, o que o poeta quis dizer, é o que Natalie naquela altura sente e sabe, ou pressente e entrevê. Por isso, o que conta e o que o poeta quis dizer é o espantoso tavelling que arranca Deannie ao lugar e a põe diante da professora atónita, depois aquele outro em que sai a correr da aula e nos atira com a porta na cara e, por fim, esse plano em que a vemos, sozinha, na profundidade do campo ao redor do liceu, até ir parar à enfermaria. Nesse minuto de cinema, sabemos, para além das palavras que «that radiance that was once so bright / Is now forever taken from my sight». Irradiância que, no filme, foi entre o plano inicial (Deannie e Bud a namorar nas cataratas, e ela com tanto medo de não aguentar mais) e essa sequência, também nas cataratas, em que Bud fez com Juanita o que não fez com ela e de que essas cataratas são a mais poderosa das metáforas.
O «esplendor na relva» é o que vimos até à aula: são os planos em que se deita de bruços na cama (Warren Beatty deita-se da mesma maneira); é o búzio encostado ao ouvido; são os ursos de peluche coexistindo com o retrato dele; é o dia em que entrou no liceu ao lado dele, tão orgulhosa, de blusa amarela e saia branca; é o plano do duche dos rapazes; é a noite de chuva no carro amarelo e Deannie a dizer a Bud que ficará para sempre à espera dele; é uma saia cor-de-rosa que funde em negro; é, sobretudo, a estarrecedora sequência em que Bud a obriga a ajoelhar-se-lhe aos pés e ela desata a chorar. Aflitíssimo, Bud diz-lhe que era uma brincadeira. E ela a responder: «Não posso brincar com estas coisas. Eu era capaz de fazer tudo o que me pedisses. Tudo. Juro que era.»
Mas é depois da sequência da aula que o filme atinge o máximo de beleza e tensão, desde o longo período em que Deannie se isola até à crise que a leva ao manicómio. Natalie Wood começa por cortar os cabelos ao espelho (iniciaticamente) e, depois, veste-se de encarnadíssimo («bandolette» encarnada, colar encarnado) para se oferecer a Bud e, depois, correr pelos rails até às cataratas (terceira e última presença delas no filme) e mergulhar nas águas, onde até a morte lhe frustram.
Mas nem Wordsworth nem Kazan terminam no desespero ou nesse desespero. Após os versos que dão título ao filme, Wordsworth diz: «We will grieve not, rather find / strenght in what remains behind.»
E é quando todo o mundo vacila à roda dela que a professora a interpela para lhe perguntar o que é que o poeta quis dizer com os versos famosos: «No, nothing can bring back the hour / the splendor in the grass, the glory in the flower.» Para a estúpida e pedagógica pergunta não há resposta ou - a esse nível - só há a que Natalie Wood comoventemente tenta articular. Mas não é nada disso que o poeta quis dizer.
O que conta, o que o poeta quis dizer, é o que Natalie naquela altura sente e sabe, ou pressente e entrevê. Por isso, o que conta e o que o poeta quis dizer é o espantoso tavelling que arranca Deannie ao lugar e a põe diante da professora atónita, depois aquele outro em que sai a correr da aula e nos atira com a porta na cara e, por fim, esse plano em que a vemos, sozinha, na profundidade do campo ao redor do liceu, até ir parar à enfermaria. Nesse minuto de cinema, sabemos, para além das palavras que «that radiance that was once so bright / Is now forever taken from my sight». Irradiância que, no filme, foi entre o plano inicial (Deannie e Bud a namorar nas cataratas, e ela com tanto medo de não aguentar mais) e essa sequência, também nas cataratas, em que Bud fez com Juanita o que não fez com ela e de que essas cataratas são a mais poderosa das metáforas.
O «esplendor na relva» é o que vimos até à aula: são os planos em que se deita de bruços na cama (Warren Beatty deita-se da mesma maneira); é o búzio encostado ao ouvido; são os ursos de peluche coexistindo com o retrato dele; é o dia em que entrou no liceu ao lado dele, tão orgulhosa, de blusa amarela e saia branca; é o plano do duche dos rapazes; é a noite de chuva no carro amarelo e Deannie a dizer a Bud que ficará para sempre à espera dele; é uma saia cor-de-rosa que funde em negro; é, sobretudo, a estarrecedora sequência em que Bud a obriga a ajoelhar-se-lhe aos pés e ela desata a chorar. Aflitíssimo, Bud diz-lhe que era uma brincadeira. E ela a responder: «Não posso brincar com estas coisas. Eu era capaz de fazer tudo o que me pedisses. Tudo. Juro que era.»
Mas é depois da sequência da aula que o filme atinge o máximo de beleza e tensão, desde o longo período em que Deannie se isola até à crise que a leva ao manicómio. Natalie Wood começa por cortar os cabelos ao espelho (iniciaticamente) e, depois, veste-se de encarnadíssimo («bandolette» encarnada, colar encarnado) para se oferecer a Bud e, depois, correr pelos rails até às cataratas (terceira e última presença delas no filme) e mergulhar nas águas, onde até a morte lhe frustram.
Mas nem Wordsworth nem Kazan terminam no desespero ou nesse desespero. Após os versos que dão título ao filme, Wordsworth diz: «We will grieve not, rather find / strenght in what remains behind.»
João Bénard da Costa, Os Filmes da Minha Vida, Os Meus Filmes da Vida
Brise marine
La chair est triste, hélas! et j'ai lu tous les livres.
Fuir! là-bas fuir! Je sens que des oiseaux sont ivres
D'être parmi l'écume inconnue et les cieux!
Rien, ni les vieux jardins reflétés par les yeux
Ne retiendra ce coeur qui dans la mer se trempe
O nuits! ni la clarté déserte de ma lampe
Sur le vide papier que la blancheur défend,
Et ni la jeune femme allaitant son enfant.
Je partirais! Steamer balançant ta mâture
Lève l'ancre pour une exotique nature!
Un Ennui, désolé par les cruels espoirs,
Croit encore à l'adieu suprême des mouchoirs!
Et, peut-être, les mâts, invitant les orages
Sont-ils de ceux qu'un vent penche sur les naufrages
Perdus, sans mâts, sans mâts, ni fertiles îlots...
Mais, ô mon coeur, entends le chant des matelots!
Fuir! là-bas fuir! Je sens que des oiseaux sont ivres
D'être parmi l'écume inconnue et les cieux!
Rien, ni les vieux jardins reflétés par les yeux
Ne retiendra ce coeur qui dans la mer se trempe
O nuits! ni la clarté déserte de ma lampe
Sur le vide papier que la blancheur défend,
Et ni la jeune femme allaitant son enfant.
Je partirais! Steamer balançant ta mâture
Lève l'ancre pour une exotique nature!
Un Ennui, désolé par les cruels espoirs,
Croit encore à l'adieu suprême des mouchoirs!
Et, peut-être, les mâts, invitant les orages
Sont-ils de ceux qu'un vent penche sur les naufrages
Perdus, sans mâts, sans mâts, ni fertiles îlots...
Mais, ô mon coeur, entends le chant des matelots!
Stéphane Mallarmé
quinta-feira, 16 de junho de 2011
The Smiths - I Know It's Over (Rank album live footage)
Oh Mother, I can feel the soil falling over my head
And as I climb into an empty bed
Oh well. Enough said.
I know it's over - still I cling
I don't know where else I can go
Oh ...
Oh Mother, I can feel the soil falling over my head
See, the sea wants to take me
The knife wants to slit me
Do you think you can help me ?
Sad veiled bride, please be happy
Handsome groom, give her room
Loud, loutish lover, treat her kindly
(Though she needs you
More than she loves you)
And I know it's over - still I cling
I don't know where else I can go
Over and over and over and over
Over and over, la ...
I know it's over
And it never really began
But in my heart it was so real
And you even spoke to me, and said :
"If you're so funny
Then why are you on your own tonight ?
And if you're so clever
Then why are you on your own tonight ?
If you're so very entertaining
Then why are you on your own tonight ?
If you're so very good-looking
Why do you sleep alone tonight ?
I know ...
'Cause tonight is just like any other night
That's why you're on your own tonight
With your triumphs and your charms
While they're in each other's arms..."
It's so easy to laugh
It's so easy to hate
It takes strength to be gentle and kind
Over, over, over, over
It's so easy to laugh
It's so easy to hate
It takes guts to be gentle and kind
Over, over
Love is Natural and Real
But not for you, my love
Not tonight, my love
Love is Natural and Real
But not for such as you and I, my love
Oh Mother, I can feel the soil falling over my head
Oh Mother, I can feel the soil falling over my head
Oh Mother, I can feel the soil falling over my head
Oh Mother, I can feel the soil falling over my ...
Oh Mother, I can feel the soil falling over my head
Oh Mother, I can even feel the soil falling over my head
Oh Mother, I can feel the soil falling over my head
Oh Mother, I can feel the soil falling over my ...
I, 27
Isso de lutarem com copos, criados para uso da alegria,
é coisa de Trácio! Deixai lá esse bárbaro costume,
afastai o recatado Baco
de tais sanguinolentas rixas.
Fica horrivelmente mal a adaga dos Partos
entre o vinho e as candeias! Sossegai
tal ímpia azoada, camaradas,
permanecei apoiados sobre o cotovelo.
Quereis que também eu tome um pouco
desse áspero Falerno? Que nos diga então
de que ferida, de que seta,
feliz morre o irmão de Megila de Opunte.
Falta-te a vontade? Por outro soldo não beberei!
Seja quem for essa Vénus que te domina,
em ti arde num fogo que não te deve fazer corar;
mesmo nas tuas tropelias
é nobre o teu amor. O que quer que tenhas,
vamos, confia na minha discrição. Ah, pobre de ti,
como tens sofrido nos braços dessa terrível Caríbdis,
rapaz digno de uma melhor chama!
Que bruxa, que mago com tessálias poções,
que deus te poderá libertar?
O próprio Pégaso a custo te desenlaçaria,
unido como estás a tal triforme Quimera.
é coisa de Trácio! Deixai lá esse bárbaro costume,
afastai o recatado Baco
de tais sanguinolentas rixas.
Fica horrivelmente mal a adaga dos Partos
entre o vinho e as candeias! Sossegai
tal ímpia azoada, camaradas,
permanecei apoiados sobre o cotovelo.
Quereis que também eu tome um pouco
desse áspero Falerno? Que nos diga então
de que ferida, de que seta,
feliz morre o irmão de Megila de Opunte.
Falta-te a vontade? Por outro soldo não beberei!
Seja quem for essa Vénus que te domina,
em ti arde num fogo que não te deve fazer corar;
mesmo nas tuas tropelias
é nobre o teu amor. O que quer que tenhas,
vamos, confia na minha discrição. Ah, pobre de ti,
como tens sofrido nos braços dessa terrível Caríbdis,
rapaz digno de uma melhor chama!
Que bruxa, que mago com tessálias poções,
que deus te poderá libertar?
O próprio Pégaso a custo te desenlaçaria,
unido como estás a tal triforme Quimera.
Horácio, Odes, I, 27
Parole
«Au fur et à mesure, n'avons-nous pas vu apparaître tout un aspect de ce monde-ci, de notre temps? La surabondance des informations, des discours politiques, des livres (et, bien sûr, les miens!), des journaux, des théories philosophiques, des paroles de toutes sortes qui, d'où qu'elles viennent, nous font «prendre des vessies pour des lanternes», dénotent la vanité de toute notre culture et notre civilisation, au point où elles sont arrivées. C'est pourquoi Qohelet me paraît aujourd'hui décisif cmme point d'arrêt pour la réflexion. Le flexion en arrière. Le regard critique par-dessus l'épaule. La parole est une aventure trop grave pour être ainsi produite par les fous. La parole ne doit pas être gaspillée. Par conséquent, il recommande, même envers Dieu, la prudence dans le discours! «Ne fais pas se précipiter ta bouche et que ton coeur ne se hâte pas de proférer une parole devant Dieu» (V, 1a) ou encore: «Lorsque tu fais un voeu à Dieu, hâte-toi de l'accomplir. Mieux vaut ne pas faire de voeu que d'en faire un et de ne pas l'accomplir» (V, 3-4).
Ce qui peut paraître étonnant, c'est la motivation de cette prudence: «Car Dieu est dans les cieux eu toi tu es sur la terre; pour cela que tes paroles soient peu nombreuses» (V, 1b) et sa correspondance: «Ne permets pas à ta bouche de faire pêcher ta chair» (V, 5a). Ainsi, la parole est immédiatement mise en relation avec Dieu. Tout usage de la parole est un reflet du mode d'action de Dieu: la parole, reflet de cette révélation que Dieu est parole. Mais ce Dieu est inconnaisable. Toi, sur la terre, sois donc prudent lorsque tu mets en jeu une relation avec lui, un voeu, ou même pas: ta parole, pas forcément prière, simplement parole même adressée à ton prochain, c'est toujours une mise en jeu de Dieu par l'usage de cette création étonnante qu'est la parole, qui est don de Dieu. D'où l'apparition du «péché» à cette occasion. La seule. Tout este vanité, folie, néant, mais une seule chose péché: l'abus de la parole!
Comment ne pas retrouver ces mêmes recommandations, de la part de Jésus, qui semblerait s'être inspiré de ce texte: «Lorsque vous priez, ne multipliez pas les vaines redites, les paroles inutiles comme les paiens qui s'imaginent qu'à force de paroles, ils seront exaucés» (Mat VI, 7). Jésus montre toujours la plus grande sobriété dans tout ce qu'il dit. Et réciproquement, il nous montre que la simple parole engage tout l'être! «Il suffit de dire: Raca! à son frère pour mériter d'être passé par le feu de la géhenne» (Mat V, 22). La parole est aussi décisive pour Jésus que pour l'Ecclésiaste. Décisive et décisoire. Car la parole est finalement plus efficace que l'action! Elle entraîne des effets considérables.
Rappelons: «Les paroles des sages dites avec calme sont plus écoutées que les cris d'un chef au millieu des insensés» (IX, 17).»
Jacques Ellul, La Raison d'être, Méditation sur l'Ecclésiaste
terça-feira, 14 de junho de 2011
O Lugar de Deus
I
O verso de abertura do primeiro poema de O Guardador de Rebanhos, de Alberto Caeiro, é desde logo revelador de uma intencionalidade particular que se repercute no conjunto dos poemas que constituem a obra e que, a um certo nível, pode ser considerado como um anúncio de uma poética de características singulares. Com efeito, se entendermos que o título de uma obra pode ser orientador, ou pelo menos sugestivo, em relação àquilo que nela podemos encontrar, dir-se-ia que o primeiro verso do primeiro poema de O Guardador de Rebanhos apresenta, logo à partida, um motivo desestabilizador, que, apesar de ser minimizado no segundo verso, não deixa de suscitar, por si mesmo, uma desconfiança que reside no facto de o guardador de rebanhos, que se apresenta em primeira pessoa, afirmar que nunca guardou rebanhos. Os versos seguintes, contudo, apesar de deflacionarem o efeito provocado pelo primeiro verso, não resolvem o problema.
Ainda assim, esta contradição vai sendo estabilizada ao longo do poema e encontra um eco particular no poema 9, quando o poeta afirma que “O rebanho é os meus pensamentos”. Sendo assim, a descrição das sensações experimentadas pelo poeta passa a poder ser entendida como a sua modalidade de apreciação das coisas exteriores e, desse modo, é enquanto parte desse exterior em que se insere que ele deve ser entendido. A relação entre todo e partes, com efeito, é recorrente na poesia de Alberto Caeiro e, a este respeito, torna-se pertinente referir o poema 47.
Vi que não ha Natureza,
Que Natureza não existe,
Que ha montes, valles, planicies,
Que ha arvores, flores, hervas,
Que ha rios e pedras,
Mas que não ha um todo a que isso pertença,
Que um conjuncto real e verdadeiro
É uma doença das nossas idéas.
O poema 47 de O Guardador de Rebanhos apresenta-nos uma distinção fundamental entre “todo” e “partes”. De acordo com o poema, a diluição da Natureza nas suas partes constitutivas é o modo saudável de a contemplarmos. Esta afirmação advém do facto de, segundo o poeta, “um conjunto real e verdadeiro/ É uma doença das nossas ideias”.
A mesma ideia surge também noutro poema, como, por exemplo, no poema 2, quando o poeta afirma que “Pensar é estar doente dos olhos”. A doença a que Caeiro se refere é aquela que Ricardo Reis identifica quando se refere ao facto de, perante uma estátua existir um sentimento translato[1] que conduz o observador num caminho apaziguador, nomeadamente quando à figura de Cristo na cruz fazemos corresponder as ideias de “perfeição moral”, de ascetismo e de castidade. Noutra passagem, o mesmo Reis reconhece em si os efeitos do contacto com Caeiro, através daquilo que ele considera ter sido a substituição que nele se exerceu com a passagem “da nossa civilização postiça” à respiração “de força (…) das grandes emoções primitivas”[2].
Esta maneira de entender “doença” e “cura” parece estar de acordo com a ideia de que a beleza da arte não provoca dor, porque ela existe sem vida. A beleza de uma arte primordial identificável na figura esculpida de um Apolo que aí surge enquanto superfície, sem a profundidade da matéria em que é trabalhada.
Assim sendo, apenas existem partes, do mesmo modo que, deste ponto de vista, se verifica a emergência de uma necessidade de, quando em presença de uma paisagem complexa, ser feita uma análise atómica da coisa em si, em confronto com a sugestão de multiplicidade, resultante de uma consciência de si diluída. Num certo sentido, o modo como Alberto Caeiro é referido e caracterizado parece sugerir uma tentativa de superação desta diluição, na medida em que é apresentado como uma unidade primordial e solar com a qual colaboram as outras partes, que vão sendo nomeadas sucessivamente de acordo com as sensações que delas são recolhidas pelo sujeito poético. De qualquer maneira, as partes organizam, num certo sentido, aquilo que o todo, em virtude da complexidade que lhe é intrínseca, fragmenta. A este propósito, Ricardo Reis afirma, partindo do verso “[A Natureza é] partes sem um todo”, que “O Universo, como conjunto, síntese e não soma das coisas, é uma ideia abstracta. Por isso não há Universo. Não é por não sabermos se não há; é por sabermos, por isso que ele é uma ideia abstracta, que não há”[3]. Deste modo, para Caeiro só há particulares. Este processo que envolve a distinção entre partes e todo encontra-se presente também, embora de um modo distinto, em outros poemas de Fernando Pessoa. No poema “Conselho”, por exemplo, esta distinção pode ser identificada a partir da relação que se estabelece entre exterior e interior, nomeadamente quando o poeta se refere a esses dois espaços, enquanto lugares constitutivos de um sujeito que se engendra. Deste modo, “o jardim”, apresentado como imagem exterior e modo de apresentação do sujeito poético, parece assumir o lugar de um todo, por detrás (ou no interior) do qual, a diluição do sujeito “duplo guardado” se realiza. Aliás, este procedimento, envolvendo uma distinção entre interior e exterior, ou dentro e fora, também está presente no poema primeiro de O Guardador de Rebanhos, nomeadamente, e de forma mais visível, nas segunda e terceira estrofes do poema:
Mas a minha tristeza é sossego
Porque é natural e justa
E é o que deve estar na alma
Quando já pensa que existe
E as mãos colhem flores sem ela dar por isso.
Como um ruído de chocalhos
Para além da curva da estrada,
Os meus pensamentos são contentes.
Só tenho pena de saber que eles são contentes,
Porque, se o não soubesse,
Em vez de serem contentes e tristes,
Seriam alegres e contentes.
Nestas estrofes está contida uma percepção particular do entendimento do sujeito poético, em relação com o meio exterior, mas também consigo próprio, e que pode ser relacionável com aquilo que acabei de afirmar a propósito do poema “Conselho”, de Fernando Pessoa. Com efeito, nesta citação, encontramos uma relação entre aquilo que pertence ao domínio dos sentidos e o que é do domínio de uma interiorização, que sugere a reflexão. A Natureza aqui entendida, bem como as coisas naturais, constitui para o poeta motivo de conformação, de ajustamento, se entendermos que estas coisas, embora capazes de produzirem tristeza são também condicionantes de um sossego, em si mesmo coerente com uma ausência de modulação das emoções do poeta. Assim sendo, o “ruído de chocalhos” será o elemento que produz o efeito de contentamento no poeta, precisamente por se encontrar “Para além da curva da estrada”, de, não sendo visível, apenas sugerir, do mesmo modo que, noutro momento do poema, é da imaginação que resulta o sentimento de tristeza diante de um pôr de sol. Aquilo que pertence à esfera do exterior, coisas como “jardins” ou “ruídos de chocalhos”, por exemplo, pode ser apreendido como uma construção, mas também como projecção de uma ideia de liberdade. Apesar de os exemplos apresentados nos conduzirem por diferentes caminhos, permitem, ainda assim, estabelecer um conceito segundo o qual, tanto os “jardins” – porque espaços construídos para fora e desejavelmente festivos – como os “ruídos dos chocalhos” – porque elementos sensoriais sugestivos de uma circunstância que, por ser exterior ao sujeito, lhe permite criar para si a ilusão de evasão – remetem para um lado de fora onde o sujeito se constitui como um outro, em contraponto com o espaço da ocultação, guardado. O mesmo é dizer por remeterem para o domínio das sensações, único domínio, aliás, onde é possível ascender ao contentamento. Por outras palavras, o contentamento a que o poeta alude acaba por se constituir como instância que resulta de uma passagem sujeita à erosão do tempo, que, por sua vez, se revela contraditoriamente no interior do poeta, nomeadamente porque, se por um lado se constitui como princípio daquilo que é do domínio do sensível, por outro, parece conter a marca de uma nostalgia reconhecível na tristeza referida no poema e que adquire uma expressividade maior pelo contraponto produzido através das contradições entre, respectivamente, “contentes” e “tristes”, por um lado, e “alegres” e contentes”, por outro.
O final da terceira estrofe deste poema 1 é consistente com uma ideia de duplicidade relacionada com o facto de, ao mesmo tempo que o poeta é capaz de encontrar “sossego” na sua tristeza, ele também é capaz de identificar o contentamento que deriva de um ruído que provém de um sítio ao qual não pode aceder senão através da audição. O “ruído dos chocalhos”, presumivelmente festivo, na imaginação do poeta, é, para todos os efeitos um elemento que se situará num ponto de observação mais exterior ao poeta, até porque a ele não acede de outro modo que não seja o da sugestão de contentamento que nele provoca.
II
A propósito da ideia de que a Natureza “não existe”, de acordo com os versos de Alberto Caeiro (“Vi que não há Natureza,/ Que Natureza não existe”), Ricardo Reis afirma que “Quando Caeiro, no seu poema principal, exclama: “A Natureza é partes sem um todo”, afirma uma ideia que é inteiramente estranha à nossa mentalidade, uma ideia que nenhum de nós podia ter. Podemos, é claro, compreendê-la; mas não podemos nunca compreender como alguém a teve.”[4] Além disso, num certo sentido, é também nas palavras de Álvaro de Campos, a propósito de Alberto Caeiro, nas «Notas para a Recordação do Meu Mestre Caeiro»[5], que vamos encontrar uma possibilidade de leitura. Com efeito, nas palavras de Campos, Caeiro é a instância fundadora de onde emanam outras instâncias, de modo que aquilo que poderia corresponder ao lugar ocupado pela “Natureza”, passará, nas palavras de Campos, a ser um vazio. Um vazio provisório ou apenas aparente, contudo, visto que nele se instalará um sistema de valores particular, proveniente do facto de, apesar de tudo, podermos encontrar na figura de Caeiro o ponto onde se encontram as partes que vão sendo identificadas a par e passo. Neste contexto, um sistema de valores pode ser entendido como um conjunto de actos singulares, executados tendo em vista um valor último e comum, que, neste caso, reside na figura de Alberto Caeiro. Por outras palavras, o lugar de Caeiro será o de figura tutelar e solar para onde se voltam as partes diante das quais ele se revela como o todo, único capaz de preencher o espaço que, do ponto de vista discursivo, tinha sido deixado vago. A este respeito, Ricardo Reis vai mesmo mais longe e parece resolver o problema quando numa outra passagem afirma que “Caeiro, no seu objectivismo total, ou, antes na sua tendência constante para um objectivismo total, é frequentemente mais grego que os próprios gregos” duvidando mesmo que “grego algum escrevesse aquela frase culminante de O Guardador de Rebanhos”[6].No fundo, Ricardo Reis, confirma aquilo que advém da caracterização de Caeiro, feita por Campos, na perspectiva de que, com Caeiro, se está na presença de todo o paganismo, consubstanciando, assim, na figura de Caeiro, um sistema de valores particular.
A ausência de modulação, já referida anteriormente em relação às emoções de Alberto Caeiro, encontra-se também na descrição que Álvaro de Campos faz do seu Mestre Caeiro[7] quando, referindo-se à voz deste, afirma que “era igual, lançada num tom de quem não procura senão dizer o que está dizendo”[8]. Aliás, toda a descrição de Caeiro, feita por Álvaro de Campos, remete para essa ausência de modulação, nomeadamente através das referências ao branco e às suas tonalidades, quando se refere à “claridade da alma”, à “cor um pouco pálida” dos malares, ao “gesto branco”, à “testa [que], sem ser alta, era poderosamente branca”, chegando mesmo a culminar esta descrição de brancura com a referência geral de que “era pela sua brancura, que parecia maior que a da cara pálida, que tinha majestade”. É também através desta ausência de modulação discursiva, que se projecta no modo como o sujeito poético sente, que podemos interpretar o facto de, numa construção aparentemente ambígua, ele afirmar acerca dos seus pensamentos, que “Só [tem] pena de saber que eles são contentes,/ Porque, se o não soubesse,/ Em vez de serem contentes e tristes,/ Seriam alegres e contentes”.
No fundo, Alberto Caeiro é a figura tutelar de um paganismo novo que encontra nas palavras de Ricardo Reis uma legitimação em «O Regresso dos Deuses»[9]. Logo na abertura, o texto contém um anúncio de uma ordem nova, quando nele se afirma que “Os deuses não morreram”. De seguida, Ricardo Reis apresenta uma explicação e simultaneamente uma justificação para este facto, referindo que aquilo “que morreu foi a nossa visão deles” e que não foram os deuses que desapareceram, mas nós que “deixámos de os ver”. Com esta afirmação, Reis assume que o problema que conduziu ao desaparecimento dos deuses não teve a sua origem nos deuses, mas sim nos homens, que, com o tempo, foram deixando de sentir como os gregos, apresentando, para o efeito, como resposta o renascimento do objectivismo puro que estes possuíam. A propósito de Objectivismo Transcendente, Reis identifica Caeiro como o grande representante daquilo a que ele chama, nomeadamente, por exemplo, na seguinte passagem das «Notas para um Prefácio a Alberto Caeiro»[10]:
Os próprios gregos da grande Grécia, criadores do Objectivismo, não atingiram o Objectivismo Transcendente do assombroso português, a quem a Fama nada deu (…)
.
È de salientar o modo como Ricardo Reis se refere a Alberto Caeiro, como “assombroso português”, na medida em que é revelador de uma forte admiração e confirma o epíteto de Mestre que, tanto ele próprio como Álvaro de Campos, atribui a Caeiro. De qualquer maneira, para Ricardo Reis, Caeiro é o representante maior do neopaganismo, por via do seu Objectivismo Transcendente. Facto para mais notório quando, a propósito do seu Mestre, Ricardo Reis afirma que “Em Caeiro o paganismo reage essencial e integral – sem os deuses, é certo, mas com toda a inteligência e a sensibilidade pagãs, a objectividade absoluta no pensamento”.[11]
A actividade crítica de Ricardo Reis conhece diversas demoras na poesia de Alberto Caeiro e, num certo sentido, enquanto discípulo deste, Reis estabelece programaticamente aquilo que a poesia de Caeiro afirma. Deste modo, é o discípulo Reis que desempenha, através do exercício da sua função de crítico, o papel de teorizador daquilo que, em verso, o seu Mestre Caeiro escreve e afirma sentir.
Assim sendo, aquilo que Caeiro afirma e que muitas vezes é surpreendente, resulta susceptível de uma interpretação particular, se lido à luz do sistema de valores que Campos, Reis e também António Mora estabelecem a partir da sua poesia.
Num opúsculo intitulado «Regresso dos Deuses», António Mora identifica em Caeiro o lugar da “aurora” do primeiro dia do neopaganismo[12]. Desse modo, Mora, situando Caeiro no ponto primordial, inaugural, do dia, concorda com Ricardo Reis, e com Álvaro de Campos, a propósito da posição central que o Mestre ocupa, para eles próprios, mas também em relação à nova ordem que com ele nasce. Com efeito, ao anunciar o aparecimento de Caeiro[13], António Mora apresenta-o, como resposta à decadência resultante da influência do “psiquismo cristão” na civilização moderna[14]. Sendo assim, considera Mora, mais adiante, no «Programa do Periódico de Caeiro, R. Reis, etc.», que importa “Desfazer o erro enorme que existe em toda a gente moderna de que o ideal grego é sensual ou propriamente animal”, considerando também, deste modo que “o ideal grego é essencialmente de calma e de domínio de si próprio”[15]. Neste sentido, ao afirmar, a propósito de Alberto Caeiro, que “se os nossos sentidos fossem perfeitos, não precisávamos de inteligência; nem as ideias abstractas de nada nos serviriam”[16], também Ricardo Reis colabora com António Mora e ambos participam da ideia de que existe uma cura para a doença de pensar, que aparece em vários poemas de O Guardador de Rebanhos.
Além disso, António Mora, no já referido opúsculo, estabelece as condições para o aparecimento de Alberto Caeiro. Alberto Caeiro é o pagão[17] que estava em falta e que, aparecendo, preenche o vazio deixado vago por uma Natureza que não existe, senão nas “partes sem um todo” em que se revela.
A centralidade de Alberto Caeiro em relação ao conjunto heteronímico de Fernando Pessoa pode ser encontrada em diferentes textos, quer de Ricardo Reis, como de Álvaro de Campos ou de António Mora. Para eles, Caeiro é a figura tutelar, qual deus pagão capaz de em si mesmo conter uma totalidade. A mesma totalidade que o próprio Caeiro rejeita ver na Natureza. Caeiro é assumido como o novo deus pagão capaz de ser descrito por Reis, quando confrontado com a sua existência, como uma aparição de consequências imprevisíveis. Por outras palavras, quando Ricardo Reis afirma que “[respirou] outra vez a grandeza, a força e a singela perfeição das grandes emoções primitivas, que vinham da natureza sem datar das almas” e que nesse momento “[abriram-se-[lhe] de para em par, visualmente, em que Amon começa o dia” e “[se] sentiu diferente, como um mortal chamado ao convívio dos Deuses”[18], embora afirme mais adiante não ser de Caeiro essa imagem, arriscamo-nos porém a considerar, ainda assim, a possibilidade de essa revelação ter uma origem divina, por exemplo por ser a voz de Caeiro, a tal voz enunciada por Campos como sendo “lançada num tom de quem não procura senão dizer o que está dizendo”, sem modulação, e, deste modo, semelhante à de um deus pagão.
O sistema de valores, centrado em Alberto Caeiro e referido por Álvaro de Campos, Ricardo Reis e António Mora, resulta de uma construção, cuja estratégia se encontra descrita num texto de Reis.
Platão, erigindo em pessoas abstractas as ideias, seguiu o velho processo pagão da criação de deuses; colocou, porém, os seus deuses longe de mais. Uma ideia só se torna um Deus quando é devolvida à concrecção. Passa então a ser uma força da Natureza. Isso é um Deus. Se isto é realidade ou não, não sei. Pessoalmente creio na existência dos deuses; creio no seu número infinito, na possibilidade de o homem ascender a deus[19]
Alberto Caeiro é a “pessoa abstracta” aludida no texto.
[1] REIS, Ricardo, «Notas para um Prefácio a Alberto Caeiro, in Prosa, Assírio & Alvim, «Col. Obras de Fernando Pessoa», nº19, Lisboa, 2003, pág. 182.
[2] Idem, pág.65.
[5] CAMPOS, Álvaro de, «Notas para a Recordação do Meu Mestre Caeiro», in PESSOA, Fernando, Poemas Completos de Alberto Caeiro, Prefácio de Ricardo Reis, Posfácio de Álvaro de Campos, Editorial Presença, 1994, Lisboa. Recolha, transcrição e notas de Teresa Sobral da Cunha, pp. 155-177.
[6] REIS, Ricardo, ob.cit., pág.141.
[7] PESSOA, Fernando, Poemas Completos de Alberto Caeiro, Prefácio de Ricardo Reis, Posfácio de Álvaro de Campos, Editorial Presença, 1994, Lisboa. Recolha, transcrição e notas de Teresa Sobral da Cunha, pág. 157.
[8] idem.
[9] REIS, Ricardo, ob.cit., pp.179-187.
[10] idem, pág.63.
[11] idem, pág.62.
[12] PESSOA Fernando, ob.cit. pág.263.
[13] idem.
[14] idem, pág.253.
[15] idem.
[16] REIS, Ricardo, ob.cit. pág.74.
[17] PESSOA Fernando, ob.cit. pág.263: “Como o que está na inteligência tem de estar primeiro nos sentidos (aqui dito sem inútil filosofia, mas apontando apenas o facto/ material/), o paganismo tinha de ser instintivo, de sensibilidade, antes de poder novamente ser uma ideia formada e consciente. Era preciso, para que pudesse renascer o paganismo, que começasse por aparecer um pagão. Era preciso um homem cujo espírito fosse pagão, para que espontaneamente revelasse à sensibilidade o paganismo, a que outros, percebendo este adaptar-se, dariam a forma intelectual.”
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