Quel nazionalizzamento ebbe le sue origini nel carattere epico serbatosi nella prima età della storiografia, e in quello oratorio e tendenzioso in servigio degli interessi politici dei singoli popoli e stati. Vi s'introdusse poi una cattiva filosofia che costruì il concetto dell'esprit des peuples o esprit des nations, e, più tardi, della «missione» delle varie nazionalità, onde s'invitò a narrare la storia di ciascuna di queste monadi, che lungo i secoli svolgevano o piuttosto conservavano il proprio loro carattere.
Ma, in verità, quel che realmente si svolge non è l'individuo o questo o quel gruppo d'individui associati, ma lo spirito universale che, per creare le sue opere, atterra e suscita e conforma ai suoi fini gl'individui e i popoli. Sicchè delle opere è da trattare, delle opere che sono umane o umano-divine, e formano il solo soggetto della storia, e non già di entità immaginarie e di nomi classificatorii scambiati per sostanze e realtà.
In effetto, la storia del pensiero o della filosofia si comportò quasi del tutto incontaminata dai cosiddetti valori nazionali, commisurando le opere all'avanzamento del pensiero umano, e non già ai sentimenti e alle passioni nazionali. Ma anche la storia della poesia, se più dell'altra era esposta al pericolo di venire trattata nazionalmente per l'equivoco che nasceva dalla varietà delle lingue e dall'ordinario distinguersi delle nazioni secondo le lingue, si è quasi del tutto, almeno in Italia, liberata da queste servitù, e tende a trasferire i poeti, e tutti gli altri creatori di arte, in una sfera sopranazionale e ideale. Le divisione delle trattazioni per singoli popoli e paesi saranno ormai intese unicamente per quel che sono: divisioni pratiche per comodo di lavoro, e classificazioni per facilità di ritrovamento di quel che si cerca.
Nelle storie dell'azione pratica quella della varia tecnica non ha bisogno di snazionalizzarsi, perché le sono mancate quasi affatto le seduzioni allo sviamento dei giudizi, prodotto da sentimenti e tendenze politiche e morali. Ma all'opposto, e per questa medesima considerazione, gran bisogno ne ha la storia etico-politica, che come fu la prima che si presentò avviluppata in questi sentimenti e tendenze, così è l'ultima a disvilupparsene. Non già che siano mancati per il passato modi di trattazione che, oltrepassando gli stati e le nazioni, indicavano la via buona, come le storie della vita religiosa e quelle della civiltà, nelle quali le diverse nazioni convenivano, tutte collaboratrici, e delle quali si giudicava il lavoro a cui esse tutte contribuivano e non si giudicava esse per sé. Ma contro o accanto a queste trattazioni che si rivolgevano alla pura umanità, perduravano le altre informate al concetto di una umanità diversificata, e formante in ciascuno dei suoi componenti un centro assoluto, e che pertanto non erano più storie veramente umane, ma immaginazioni e costruzioni naturalistiche o metafisiche. Ognuno di noi sa a quali perversioni e a quali orrori questa coscienza nazionale entificata ha oggi portato il mondo, che fu un tempo il mondo cristiano e, in un altro tempo, volle essere il mondo dell'umanità, della fratellanza e della libertà. Al risanamento di questo mondo straziato e avvelenato noi storici dobbiamo dare la nostra parte specifica di lavoro, con lo «snazionalizzare» sempre più la storiografia: il che non vuol dire, come è chiaro, rinunziare a conoscere le cose degli italiani e dei francesi, dei tedeschi e degli inglesi, dei russi e dei giapponesi, e via dicendo, ma volerle conoscere e intendere e giudicare unicamente secondo il loro valore umano e universale.»
Benedetto Croce, La Mia Filosofia
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