Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Anche in una società più decente di questa, mi sa che mi troverò a mio agio e d'accordo sempre con una minoranza. (Nanni Moreti)
Acerca de mim
terça-feira, 29 de novembro de 2011
Fatalismo Russo
«Ausência de ressentimento, lucidez sobre a natureza do ressentimento, - quem sabe se as não devo também à minha grande doença! O problema não é simples: supõe uma experiência, experiência conseguida a partir da força e também a partir da fraqueza. Se alguma coisa podemos objectar ao estado de doença, é que o verdadeiro instinto de cura enfraquece e, no homem, tal instinto é um autêntico instinto de defesa. Não chegamos a desembaraçar-nos de nada; de nada nos libertamos. Tudo nos fere. Homens e coisas surgem em proximidade indiscreta; tudo quanto nos acontece deixa marcas profundas, a recordação é uma ferida purulenta.
Estar doente é propriamente uma forma de ressentimento. Contra tudo isto há um grande remédio, e um só, e eu chamo-lhe o «fatalismo russo», esse fatalismo sem revolta de que está impregnado o soldado russo que, depois de queixar-se da dureza da campanha, acaba por deitar-se em plena neve. Não tomar mais remédios, renunciar a absorver seja o que for, não reagir em caso algum... A grande razão deste fatalismo, que não é sempre, e só, valentia perante a morte, deste fatalismo conservador da vida na sua contingência mais perigosa, é o abaixamento das funções do metabolismo, o seu retardamento, uma espécie de desejo do sono hibernal. Alguns passos mais nesta lógica e ter-se-á o faquir que dorme semanas num esquife.»
Estar doente é propriamente uma forma de ressentimento. Contra tudo isto há um grande remédio, e um só, e eu chamo-lhe o «fatalismo russo», esse fatalismo sem revolta de que está impregnado o soldado russo que, depois de queixar-se da dureza da campanha, acaba por deitar-se em plena neve. Não tomar mais remédios, renunciar a absorver seja o que for, não reagir em caso algum... A grande razão deste fatalismo, que não é sempre, e só, valentia perante a morte, deste fatalismo conservador da vida na sua contingência mais perigosa, é o abaixamento das funções do metabolismo, o seu retardamento, uma espécie de desejo do sono hibernal. Alguns passos mais nesta lógica e ter-se-á o faquir que dorme semanas num esquife.»
Friedrich Nietzsche, Ecce Homo
domingo, 27 de novembro de 2011
Snazionalizzare la Storia
«Anche qui un'esigenza che si è andata affacciando e attuando nella storiografia e nella sua metodologia dà la mano a un'esigenza morale e politica dei nostri tempi. Snazionalizzare la storia: diciamo la storia che sia veramente tale, la storia che è critica e che è scienza o, meglio, filosofia.
Quel nazionalizzamento ebbe le sue origini nel carattere epico serbatosi nella prima età della storiografia, e in quello oratorio e tendenzioso in servigio degli interessi politici dei singoli popoli e stati. Vi s'introdusse poi una cattiva filosofia che costruì il concetto dell'esprit des peuples o esprit des nations, e, più tardi, della «missione» delle varie nazionalità, onde s'invitò a narrare la storia di ciascuna di queste monadi, che lungo i secoli svolgevano o piuttosto conservavano il proprio loro carattere.
Ma, in verità, quel che realmente si svolge non è l'individuo o questo o quel gruppo d'individui associati, ma lo spirito universale che, per creare le sue opere, atterra e suscita e conforma ai suoi fini gl'individui e i popoli. Sicchè delle opere è da trattare, delle opere che sono umane o umano-divine, e formano il solo soggetto della storia, e non già di entità immaginarie e di nomi classificatorii scambiati per sostanze e realtà.
In effetto, la storia del pensiero o della filosofia si comportò quasi del tutto incontaminata dai cosiddetti valori nazionali, commisurando le opere all'avanzamento del pensiero umano, e non già ai sentimenti e alle passioni nazionali. Ma anche la storia della poesia, se più dell'altra era esposta al pericolo di venire trattata nazionalmente per l'equivoco che nasceva dalla varietà delle lingue e dall'ordinario distinguersi delle nazioni secondo le lingue, si è quasi del tutto, almeno in Italia, liberata da queste servitù, e tende a trasferire i poeti, e tutti gli altri creatori di arte, in una sfera sopranazionale e ideale. Le divisione delle trattazioni per singoli popoli e paesi saranno ormai intese unicamente per quel che sono: divisioni pratiche per comodo di lavoro, e classificazioni per facilità di ritrovamento di quel che si cerca.
Nelle storie dell'azione pratica quella della varia tecnica non ha bisogno di snazionalizzarsi, perché le sono mancate quasi affatto le seduzioni allo sviamento dei giudizi, prodotto da sentimenti e tendenze politiche e morali. Ma all'opposto, e per questa medesima considerazione, gran bisogno ne ha la storia etico-politica, che come fu la prima che si presentò avviluppata in questi sentimenti e tendenze, così è l'ultima a disvilupparsene. Non già che siano mancati per il passato modi di trattazione che, oltrepassando gli stati e le nazioni, indicavano la via buona, come le storie della vita religiosa e quelle della civiltà, nelle quali le diverse nazioni convenivano, tutte collaboratrici, e delle quali si giudicava il lavoro a cui esse tutte contribuivano e non si giudicava esse per sé. Ma contro o accanto a queste trattazioni che si rivolgevano alla pura umanità, perduravano le altre informate al concetto di una umanità diversificata, e formante in ciascuno dei suoi componenti un centro assoluto, e che pertanto non erano più storie veramente umane, ma immaginazioni e costruzioni naturalistiche o metafisiche. Ognuno di noi sa a quali perversioni e a quali orrori questa coscienza nazionale entificata ha oggi portato il mondo, che fu un tempo il mondo cristiano e, in un altro tempo, volle essere il mondo dell'umanità, della fratellanza e della libertà. Al risanamento di questo mondo straziato e avvelenato noi storici dobbiamo dare la nostra parte specifica di lavoro, con lo «snazionalizzare» sempre più la storiografia: il che non vuol dire, come è chiaro, rinunziare a conoscere le cose degli italiani e dei francesi, dei tedeschi e degli inglesi, dei russi e dei giapponesi, e via dicendo, ma volerle conoscere e intendere e giudicare unicamente secondo il loro valore umano e universale.»
Quel nazionalizzamento ebbe le sue origini nel carattere epico serbatosi nella prima età della storiografia, e in quello oratorio e tendenzioso in servigio degli interessi politici dei singoli popoli e stati. Vi s'introdusse poi una cattiva filosofia che costruì il concetto dell'esprit des peuples o esprit des nations, e, più tardi, della «missione» delle varie nazionalità, onde s'invitò a narrare la storia di ciascuna di queste monadi, che lungo i secoli svolgevano o piuttosto conservavano il proprio loro carattere.
Ma, in verità, quel che realmente si svolge non è l'individuo o questo o quel gruppo d'individui associati, ma lo spirito universale che, per creare le sue opere, atterra e suscita e conforma ai suoi fini gl'individui e i popoli. Sicchè delle opere è da trattare, delle opere che sono umane o umano-divine, e formano il solo soggetto della storia, e non già di entità immaginarie e di nomi classificatorii scambiati per sostanze e realtà.
In effetto, la storia del pensiero o della filosofia si comportò quasi del tutto incontaminata dai cosiddetti valori nazionali, commisurando le opere all'avanzamento del pensiero umano, e non già ai sentimenti e alle passioni nazionali. Ma anche la storia della poesia, se più dell'altra era esposta al pericolo di venire trattata nazionalmente per l'equivoco che nasceva dalla varietà delle lingue e dall'ordinario distinguersi delle nazioni secondo le lingue, si è quasi del tutto, almeno in Italia, liberata da queste servitù, e tende a trasferire i poeti, e tutti gli altri creatori di arte, in una sfera sopranazionale e ideale. Le divisione delle trattazioni per singoli popoli e paesi saranno ormai intese unicamente per quel che sono: divisioni pratiche per comodo di lavoro, e classificazioni per facilità di ritrovamento di quel che si cerca.
Nelle storie dell'azione pratica quella della varia tecnica non ha bisogno di snazionalizzarsi, perché le sono mancate quasi affatto le seduzioni allo sviamento dei giudizi, prodotto da sentimenti e tendenze politiche e morali. Ma all'opposto, e per questa medesima considerazione, gran bisogno ne ha la storia etico-politica, che come fu la prima che si presentò avviluppata in questi sentimenti e tendenze, così è l'ultima a disvilupparsene. Non già che siano mancati per il passato modi di trattazione che, oltrepassando gli stati e le nazioni, indicavano la via buona, come le storie della vita religiosa e quelle della civiltà, nelle quali le diverse nazioni convenivano, tutte collaboratrici, e delle quali si giudicava il lavoro a cui esse tutte contribuivano e non si giudicava esse per sé. Ma contro o accanto a queste trattazioni che si rivolgevano alla pura umanità, perduravano le altre informate al concetto di una umanità diversificata, e formante in ciascuno dei suoi componenti un centro assoluto, e che pertanto non erano più storie veramente umane, ma immaginazioni e costruzioni naturalistiche o metafisiche. Ognuno di noi sa a quali perversioni e a quali orrori questa coscienza nazionale entificata ha oggi portato il mondo, che fu un tempo il mondo cristiano e, in un altro tempo, volle essere il mondo dell'umanità, della fratellanza e della libertà. Al risanamento di questo mondo straziato e avvelenato noi storici dobbiamo dare la nostra parte specifica di lavoro, con lo «snazionalizzare» sempre più la storiografia: il che non vuol dire, come è chiaro, rinunziare a conoscere le cose degli italiani e dei francesi, dei tedeschi e degli inglesi, dei russi e dei giapponesi, e via dicendo, ma volerle conoscere e intendere e giudicare unicamente secondo il loro valore umano e universale.»
Benedetto Croce, La Mia Filosofia
sábado, 26 de novembro de 2011
Times are evil
«Let others complain that the times are evil. I complain that they are wretched, for they are without passion. People's thoughts are as thin and fragile as lace, and they themselves as pitiable as lace-making girls. The thoughts of their hearts are too wretched to be sinful. It is perhaps possible to regard it as sin for a worm to nourish such thoughts, but not for a human being, who is created in the image of God. Their desires are staid and dull, their passions drowsy. They perform their duties, these mercenary souls, but just like the Jews, they indulge in trimming the coins a little; they think that, even though our Lord keeps ever so orderly an account book, they can still manage to trick him a little. Fie on them! That is why my soul always turns back to the Old Testament and to Shakespeare. There one still feels that those who speak are human beings; there they hate, there they love, there they murder the enemy, curse his descendants through all generations - there they sin.»
Soren Kierkegaard, Diapsalmata
Courage
«"Never lose courage! When troubles pile up most appallingly about you, you will see a helping hand in the clouds" - so said His Reverence Jesper Morten at vespers recently. Well, I am accustomed to walking a great deal under the open sky, but I have never noticed such a thing. A few days ago while on a walking tour, I became aware of such a phenomenon. It was really not a hand, but more like an arm, that reached out of the cloud. I fell into contemplation, and the thought came to me: If only Jesper Morten were here so he could decide whether this was the phenomenon he referred to. As I stood there lost in these thoughts, a passerby addressed me and said as he pointed up to the clouds, "Do you see that funnel-shaped cloud? One seldom sees such a thing in these parts. Sometimes it carries whole houses long with it." Good heavens, I thought, is that a funnel-shaped cloud-and took to my heels as fast as I could. What would His Reverence Jesper Morten have done, I wonder, in my place?»
Soren Kierkegaard, Diapsalmata
quinta-feira, 24 de novembro de 2011
Le Passé dans le Présent
La rose et le lis, dans la rosée matinale,
Fleurissent dans le jardin du voisinage;
Dans le fond, buissonneux, familier,
Le rocher monte vers le ciel;
Et, ceint d'une haute forêt,
Couronné du burg médiéval,
Le contour du sommet se prolonge
Jusqu'à s'unir à la vallée.
Et cela embaume comme jadis,
Quand nous connaissions les peines d'amour
Et que les cordes de ma harpe
Rivalisaient avec le rayon du matin;
Quand le chant du chasseur, hors du hallier
Résonnait à pleins poumons,
Pour enflammer, réconforter
Selon que le désirait notre coeur.
Or, puisque les forêts éternellement reverdissent,
Prenez courage et suivez leur exemple;
Ce que vous avez naguère goûté pour vous
Peut se goûter aussi dans les autres.
Personne alors ne nous accusera plus
De vouloir pour nous seuls le plaisir;
À tous les moments de la vie,
Il convient de savoir jouir.
Et avec ce détour de mon chant
Nous voici de nouveau chez Hafiz;
Car il sied de goûter l'achèvement du jour,
Avec ceux qui connaissent le plaisir.
Fleurissent dans le jardin du voisinage;
Dans le fond, buissonneux, familier,
Le rocher monte vers le ciel;
Et, ceint d'une haute forêt,
Couronné du burg médiéval,
Le contour du sommet se prolonge
Jusqu'à s'unir à la vallée.
Et cela embaume comme jadis,
Quand nous connaissions les peines d'amour
Et que les cordes de ma harpe
Rivalisaient avec le rayon du matin;
Quand le chant du chasseur, hors du hallier
Résonnait à pleins poumons,
Pour enflammer, réconforter
Selon que le désirait notre coeur.
Or, puisque les forêts éternellement reverdissent,
Prenez courage et suivez leur exemple;
Ce que vous avez naguère goûté pour vous
Peut se goûter aussi dans les autres.
Personne alors ne nous accusera plus
De vouloir pour nous seuls le plaisir;
À tous les moments de la vie,
Il convient de savoir jouir.
Et avec ce détour de mon chant
Nous voici de nouveau chez Hafiz;
Car il sied de goûter l'achèvement du jour,
Avec ceux qui connaissent le plaisir.
Goethe, Le Livre du chanteur
quarta-feira, 23 de novembro de 2011
Memória
«Sem o saber nem o querer - respondeu Carlota - o senhor deu à nossa conversa uma volta inteiramente favorável à minha tese. Mas a efígie do homem é, sem dúvida, muito independente; onde quer que esteja, está para si só, e não vamos pedir-lhe que nos indique o verdadeiro sepulcro. Mas quer que lhe confesse um estranho sentimento? Até pelas estátuas experimento uma certa aversão; pois sempre me pareceu que me dirigem uma tácita censura; evocam um remoto passado e recordam-me como é difícil honrar devidamente o presente. Quando recordamos os seres que vimos e conhecemos e confessamos quão pouco fomos para eles, quão pouco foram eles para nós, pomo-nos de tão mau humor! Encontramo-nos com um homem engenhoso e nem lhe falamos; com um homem sabedor e não procuramos aprender com ele; com um homem que conhece o mundo e não queremos o seu conselho; com um homem afável sem sequer o cumprimentarmos. E, por desgraça, não acontece assim unicamente com os que vão de passagem. Sociedades e famílias conduzem-se de modo exactamente igual com os seus mais queridos membros; as cidades com os seus cidadãos mais dignos; os povos com os seus melhores príncipes; as nações com os seus homens mais ilustres. Ouvi uma vez perguntar porque se diz dos mortos tanto bem e dos vivos se fala sempre com receio. E a resposta foi: porque dos mortos não há nada que temer ao passo que os vivos podemos encontrá-los no caminho. Pois imoral é também preocupar-se alguém com a memória dos outros; a maioria das vezes não passa de uma distracção egoísta quando, pelo contrário, deveria ser coisa sagrada manter sempre vivas e activas as nossas relações com os sobreviventes.»
Goethe, As Afinidades Electivas
sexta-feira, 18 de novembro de 2011
Poeta
«Com a grande parte dos poetas, ó pai e ó filhos dignos de tal pai, deixamos enganar-nos por falsas aparências de verdade: forcejo por ser breve, em obscuro me torno; a quem procura o estilo polido, faltam a força e o calor, e todo o que se propõe atingir o sublime, descamba no empolado. Acaba, todavia, rastejando pelo chão o demasiado cauto, o que tem medo da procela; mas quem deseje variar prodigiosamente um tema uno, pintará golfinhos nas florestas e javalis nas ondas do mar. Procurando fugir do engano se cai no erro, caso se não possua a arte. Nas imediações da escola Emília, o mais ínfimo dos escultores moldará unhas no bronze e até nele imitará cabelos sedosos, mas será infeliz no acabamento da obra por não saber criar um todo. Se algo desejasse compor, não quereria assemelhar-se a esse, do mesmo modo que não me agradaria possuir horrível nariz, ainda que meus olhos negros e negros cabelos fossem dignos de admiração.
Vós que escreveis, escolhei matéria à altura das vossas forças e pesai no espírito longamente que coisas vossos ombros bem carregam e as que eles não podem suportar. A quem escolher assunto de acordo com as suas possibilidades nunca faltará eloquência nem tão-pouco ordem luzidia.
A virtude e beleza da ordem consistirão - ou eu me engano - em que se diga imediatamente o que tem de ser dito, pondo muitos pormenores de lado e omitindo-os de momento: que o autor do poema prometido, ora escolha este aspecto, ora despreze aquele.»
Vós que escreveis, escolhei matéria à altura das vossas forças e pesai no espírito longamente que coisas vossos ombros bem carregam e as que eles não podem suportar. A quem escolher assunto de acordo com as suas possibilidades nunca faltará eloquência nem tão-pouco ordem luzidia.
A virtude e beleza da ordem consistirão - ou eu me engano - em que se diga imediatamente o que tem de ser dito, pondo muitos pormenores de lado e omitindo-os de momento: que o autor do poema prometido, ora escolha este aspecto, ora despreze aquele.»
Horácio, Arte Poética
quinta-feira, 17 de novembro de 2011
Otília
«Há uma variedade de monumentos e símbolos que aproximam de nós os ausentes e os mortos. Mas nenhum vale tanto como imagem. A conversa com uma imagem querida tem o mesmo encantamento que o debate com um amigo. Sentimos de modo muito grato que somos dois e que, no entanto, não nos podem separar.
Conversamos muitas vezes com uma pessoa presente como com um retrato. Não necessita falar, nem olhar-nos, nem ocupar-se de nós; vemo-lo, sentimos a nossa ligação com ele, e até essa nossa ligação pode aumentar sem que nada faça para isso, nem o sinta, embora se porte connosco exactamente como um retrato.»
Conversamos muitas vezes com uma pessoa presente como com um retrato. Não necessita falar, nem olhar-nos, nem ocupar-se de nós; vemo-lo, sentimos a nossa ligação com ele, e até essa nossa ligação pode aumentar sem que nada faça para isso, nem o sinta, embora se porte connosco exactamente como um retrato.»
Goethe, As Afinidades Electivas
quarta-feira, 16 de novembro de 2011
Vida
«-Passemos agora ao resto - disse a seu amigo - à descrição da herdade, para o que deve haver já um trabalho prévio suficiente, de que depois resultarão os modelos de arrendamento e outras coisas. Mas assinalemos e estabeleçamos um princípio: separemos a vida de tudo o que é propriamente negócio. A vida requer seriedade, esforço e livre arbítrio, o negócio impõe a mais pura perseverança; como a vida necessita às vezes de inconsequência, até mesmo se pode dizer que a vida nos dá alegria e suavidade; quanto mais exacto fores num, tanto mais livre serás no outro, ao passo que, se misturar as duas coisas, o arbitrário destrói e elimina o exacto.»
Goethe, As Afinidade Electivas
terça-feira, 15 de novembro de 2011
Tempo
«A distinção absoluta primitiva entre tempo e ternidade no pensamento Cristão - entre nunc movens com o seu princípio e fim e nunc stans, a posse perfeita da vida infinda - adquiriu uma terceira ordem intermediária baseada nesta posição muito singular de "nem numa nem noutra" dos anjos. Mas tal como o Princípio da Complementaridade, esta ficção-concórdia em breve provou que tinha utilidade fora do seu contexto imediato, a angeologia. Porque serviu como um meio para se falar sobre certos aspectos da experiência humana, foi humanizada. Ajudou as pessoas a pensar na sensação que os homens às vezes têm de participar numa qualquer ordem de duração que não seja do nunc movens de poderem, por assim dizer, fazer tudo o que os anjos fazem. Estes momentos são os tais a que Agostinho chama os momentos daquilo a que os psicólogos chamam a "integração temporal". Quando Agostinho recitava o seu salmo, encontrou nele uma imagem para a integração do passado, presente e futuro, que desafia o tempo consecutivo. Descobriu aquilo a que agora erradamente se refere como "forma espacial". Ele estava a antecipar o que sebemos da relação entre livros e a terceira ordem de duração de S. Tomás - porque na espécie de tempo que os livros conhecem , um momento tem perspectivas infindas da realidade. Sentimos, nas palavra de Thomas Mann, que "no seu começo existe o seu meio e o seu fim, o seu passado invade o presente e até a mais extrema atenção ao presente é invadida pela preocupação com o futuro". O conceito de aevum fornece uma forma de falar sobre esta variedade invulgar de duração - nem temporal nem eterna, mas, segundo Aquino disse, participando tanto no temporal como no eterno. Não elimina o tempo nem o espacializa; coexiste com o tempo, e é uma forma nas quais as coisas podem ser perpétuas sem serem eternas.»
Frank Kermode, A Sensibilidade Apocalíptica
domingo, 13 de novembro de 2011
105
«A justiça que recompensa. Quem tenha entendido plenamente a teoria da inteira irresponsabilidade já não pode meter no conceito de justiça a chamada justiça que pune e recompensa: caso esta consista em dar o seu a cada um. Pois aquele que é punido não merece a punição: ele é apenas utilizado como meio para, doravante, dissuadir de certos actos; do mesmo modo, aquele a quem se recompensa não merece essa recompensa: é que ele não podia agir de maneira diferente daquela em que agiu. Portanto, a recompensa tem só o sentido dum encorajamento para ele e para outros, a fim de fornecer um motivo para ulteriores acções; é para o corredor na pista de corridas que se gritam elogios, não para aquele que está na meta. Nem o castigo nem a recompensa são algo que caiba a alguém como o que é seu: são-lhe dados por razões utilitárias, sem que, com justiça, ele os pudesse reclamar. Deve-se poder dizer que «o sábio não recompensa, porque se agiu bem», tal qual como se disse que «o sábio não castiga, porque se agiu mal, mas para que não se aja mal». Se a pena e a recompensa fossem suprimidas, então desapareceriam os mais poderosos motivos que afastam de certas acções e levam a certas outras acções; o interesse dos homens exige a sua permanência; e na medida em que pena e recompensa, repreensão e louvor agem da maneira mais sensível sobre a vaidade, pois o mesmo interesse reclama também a permanência da vaidade.»
Friedrich Nietzsche, Humano, demasiado humano
Tea at the Palaz of Hoon
Not less because in purple I descended
The western day through what you called
The loneliest air, not less was I myself.
What was the ointment sprinkled on my beard?
What were the hymns that buzzed beside my ears?
What was the sea whose tide swept through me there?
Out of my mind the golden ointment rained,
And my ears made the blowing hymns they heard.
I was myself the compass of that sea:
I was the world in which I walked, and what I saw
Or heard or felt came not but from myself;
And there I found myself more truly and more strange.
Wallace Stevens
quarta-feira, 9 de novembro de 2011
Dangerousness
«The political is threatened insofar as man's dangerousness is threatened. Therefore the affirmation of the political is the affirmation of man's dangerousness. How should this affirmation be understood? Should it be intended politically, it can have "no normative meaning but only an existential meaning", like everything political. One then will have to ask: in time of danger, in the "dire emergency", does "a fighting totality of men" affirm the dangerousness of its enemy? does it wish for dangerous enemies? And one will have to answer "no," along the lines of C. Fabricius's comment when he heard that a Greek philosopher had proclaimed pleasure as the greatest good: If only Pyrrhus and the Samnites shared this philosopher's opinion as long as we are at war with them! Likewise, a nation in danger wants its own dangerousness not for the sake of dangerousness, but for the sake of being rescued from danger. Thus, the affirmation of dangerousness as such has no political meaning but only a "normative", moral meaning; expressed appropriately, that affirmation is the affirmation of power as the power that forms states, of virtù in Machiavelli's sense. Here, too, we recall Hobbes, who describes fearfulness as the virtue (which, incidentally, is just as much negated by him as is the state of nature itself) of the state of nature, but who understands fearfulness as inclusive of glory and courage. Thus warlike morals seem to be the ultimate legitimation for Schmitt's affirmation of the political, and the opposition between the negation and the position of the political seems to coincide with the opposition between pacifist internationalism and bellicose nationalism.
Is that conclusion really correct? One has to doubt it if one considers the resolution with which Schmitt refuses to come on as a belligerent against the pacifists. And one must quarrel with the conclusion as soon as one has seen more precisely how Schmitt arrives at man's dangerousness as the ultimate presupposition of the position of the political. After he has aleady twice rejected the pacifist ideal on the ground that the ideal in any case has no meaning for behavior in the present situation and for the understanding of this situation, Schmitt - while recognizing the possibility in principle of the "world state" as a wholly apolitical "partnership in consumption and production" of humanity united - finally asks "upon which men will the terrible power devolve that a global economic and technical centralization entails"; in other words, which men will rule in the "world state." "This question cannot by any means be dismissed by hoping... that government of men over men will have become superfluous, because men will then be absolutely free. One can answer this question with optimistic or pessimistic suppositions," namely with the optimistic supposition that man will then be undangerous, or with the pessimistic supposition that he will be dangerous. The question of man's dangerousness or undangerousness thus surfaces in view of the question whether the government of men over men is, or will be, necessary or superfluous. Accordingly, dangerousness means need of dominion. And the ultimate quarrel occurs not between belicosity and pacifism (or nationalism and internationalism) but between the "authoritarian and anarchistic theories".»
Is that conclusion really correct? One has to doubt it if one considers the resolution with which Schmitt refuses to come on as a belligerent against the pacifists. And one must quarrel with the conclusion as soon as one has seen more precisely how Schmitt arrives at man's dangerousness as the ultimate presupposition of the position of the political. After he has aleady twice rejected the pacifist ideal on the ground that the ideal in any case has no meaning for behavior in the present situation and for the understanding of this situation, Schmitt - while recognizing the possibility in principle of the "world state" as a wholly apolitical "partnership in consumption and production" of humanity united - finally asks "upon which men will the terrible power devolve that a global economic and technical centralization entails"; in other words, which men will rule in the "world state." "This question cannot by any means be dismissed by hoping... that government of men over men will have become superfluous, because men will then be absolutely free. One can answer this question with optimistic or pessimistic suppositions," namely with the optimistic supposition that man will then be undangerous, or with the pessimistic supposition that he will be dangerous. The question of man's dangerousness or undangerousness thus surfaces in view of the question whether the government of men over men is, or will be, necessary or superfluous. Accordingly, dangerousness means need of dominion. And the ultimate quarrel occurs not between belicosity and pacifism (or nationalism and internationalism) but between the "authoritarian and anarchistic theories".»
Leo Strauss, «Notes on Carl Schmitt, The Concept of the political»
terça-feira, 8 de novembro de 2011
Retórica
«Entendamos por retórica a capacidade de descobrir o que é adequado a cada caso com o fim de persuadir. Esta não é seguramente a função de nenhuma outra arte; pois cada uma das outras apenas é instrutiva e persuasiva nas áreas da sua competência; como, por exemplo, a medicina sobre a saúde e a doença, a geometria sobre as variações que afectam as grandezas, e a aritmética sobre os números; o mesmo se passando com todas as outras artes e ciências. Mas a retórica parece ter, por assim dizer, a faculdade de descobrir os meios de persuasão sobre qualquer questão dada. E por isso afirmamos que, como arte, as suas regras não se aplicam a nenhum género específico de coisas.
Das provas de persuasão, umas são próprias da arte retórica e outras não. Chamo provas inartísticas a todas as que não são produzidas por nós, antes já existem: provas como testemunhos, confissões sob tortura, documentos escritos e outras semelhantes; e provas artísticas, todas as que se podem preparar pelo método e por nós próprios. De sorte que é necessário utilizar as primeiras, mas inventar as segundas.
As provas de persuasão fornecidas pelo discurso são de três espécies: umas residem no carácter moral do orador; outras, no modo como se dispõe o ouvinte; e outras, no próprio discurso, pelo que este demonstra ou parece demonstrar.
Persuade-se pelo carácter quando o discurso é proferido de tal maneira que deixa a impressão de o orador ser digno de fé. Pois acreditamos mais e bem mais depressa em pessoas honestas, em todas as coisas em geral, mas sobretudo nas de que não há conhecimento exacto e que deixam margem para dúvida. É, porém, necessário que esta confiança seja resultado do discurso e não de uma opinião prévia sobre o carácter do orador; pois não se deve considerar sem importância para a persuasão a probidade do que fala, como aliás alguns autores desta arte propõem, mas quase se poderias dizer que o carácter é o principal meio de persuasão.
Persuade-se pela disposição dos ouvintes, quando estes são levados a sentir emoção por meio do discurso, pois os juízos que emitimos variam conforme sentimos tristeza ou alegria, amor ou ódio. É desta espécie de prova e só desta que, dizíamos, se tentam ocupar os autores actuais de artes retóricas. E a ela daremos especial atenção quando falarmos das paixões.
Persuadimos, enfim, pelo discurso, quando mostramos a verdade ou o que parece verdade, a partir do que é persuasivo em cada caso particular.
Ora, como as provas por persuasão se obtêm por estes três meios, é evidente que delas se pode servir quem for capaz de formar silogismos, e puder teorizar sobre os caracteres, sobre as virtudes e, em terceiro lugar, sobre as paixões (o que cada uma das paixões é, quais as suas qualidades, que origem têm e como se produzem). De sorte que a retórica é como que um rebento da dialéctica e daquele saber prático sobre os caracteres a que é justo chamar política. É por isso também que a retórica se cobre com a figura da política, e igualmente aqueles que têm a pretensão de a conhecer, quer por falta de educação, quer por jactância, quer ainda por outras razões inerentes à condição humana. A retórica é, de facto, uma parte da dialéctica e a ela se assemelha, como dissemos no princípio; pois nenhuma das duas é ciência de definição de um assunto específico, mas mera faculdade de proporcionar razões para os argumentos.»
Das provas de persuasão, umas são próprias da arte retórica e outras não. Chamo provas inartísticas a todas as que não são produzidas por nós, antes já existem: provas como testemunhos, confissões sob tortura, documentos escritos e outras semelhantes; e provas artísticas, todas as que se podem preparar pelo método e por nós próprios. De sorte que é necessário utilizar as primeiras, mas inventar as segundas.
As provas de persuasão fornecidas pelo discurso são de três espécies: umas residem no carácter moral do orador; outras, no modo como se dispõe o ouvinte; e outras, no próprio discurso, pelo que este demonstra ou parece demonstrar.
Persuade-se pelo carácter quando o discurso é proferido de tal maneira que deixa a impressão de o orador ser digno de fé. Pois acreditamos mais e bem mais depressa em pessoas honestas, em todas as coisas em geral, mas sobretudo nas de que não há conhecimento exacto e que deixam margem para dúvida. É, porém, necessário que esta confiança seja resultado do discurso e não de uma opinião prévia sobre o carácter do orador; pois não se deve considerar sem importância para a persuasão a probidade do que fala, como aliás alguns autores desta arte propõem, mas quase se poderias dizer que o carácter é o principal meio de persuasão.
Persuade-se pela disposição dos ouvintes, quando estes são levados a sentir emoção por meio do discurso, pois os juízos que emitimos variam conforme sentimos tristeza ou alegria, amor ou ódio. É desta espécie de prova e só desta que, dizíamos, se tentam ocupar os autores actuais de artes retóricas. E a ela daremos especial atenção quando falarmos das paixões.
Persuadimos, enfim, pelo discurso, quando mostramos a verdade ou o que parece verdade, a partir do que é persuasivo em cada caso particular.
Ora, como as provas por persuasão se obtêm por estes três meios, é evidente que delas se pode servir quem for capaz de formar silogismos, e puder teorizar sobre os caracteres, sobre as virtudes e, em terceiro lugar, sobre as paixões (o que cada uma das paixões é, quais as suas qualidades, que origem têm e como se produzem). De sorte que a retórica é como que um rebento da dialéctica e daquele saber prático sobre os caracteres a que é justo chamar política. É por isso também que a retórica se cobre com a figura da política, e igualmente aqueles que têm a pretensão de a conhecer, quer por falta de educação, quer por jactância, quer ainda por outras razões inerentes à condição humana. A retórica é, de facto, uma parte da dialéctica e a ela se assemelha, como dissemos no princípio; pois nenhuma das duas é ciência de definição de um assunto específico, mas mera faculdade de proporcionar razões para os argumentos.»
Aristóteles, Retórica
segunda-feira, 7 de novembro de 2011
II
Debaixo do colchão tenho guardado
o coração mais limpo desta terra
como um peixe lavado pela água
da chuva que me alaga interiormente
Acordo cada dia com um corpo
que não aquele com que me deitei
e nunca sei ao certo se sou hoje
o projecto ou memória do que fui
Abraço os braços fortes mas exactos
que à noite me levaram onde estou
e, bebendo café, leio nas folhas
das árvores do parque o tempo que fará
Depois irei ali além das pontes
vender, comprar, trocar, a vida toda acesa;
mas com cuidado, para não ferir
as minhas mãos astutas de princesa.
o coração mais limpo desta terra
como um peixe lavado pela água
da chuva que me alaga interiormente
Acordo cada dia com um corpo
que não aquele com que me deitei
e nunca sei ao certo se sou hoje
o projecto ou memória do que fui
Abraço os braços fortes mas exactos
que à noite me levaram onde estou
e, bebendo café, leio nas folhas
das árvores do parque o tempo que fará
Depois irei ali além das pontes
vender, comprar, trocar, a vida toda acesa;
mas com cuidado, para não ferir
as minhas mãos astutas de princesa.
António Franco Alexandre, Quatro Caprichos
Idee
«Nel realizzare la trasformazione delle idee in unità di misura, Platone si ispira alla vita pratica, nella quale, a quanto sembra, tutte le arti e le tecniche sono guidate da «idee», ossia da «forme» di oggetti che l'artefice immagina con l'occhio della mente, e imita per riprodurle nella realtà. Con l'aiuto di questa analogia Platone riesce a concepire la trascendenza delle idee allo stesso modo in cui concepisce l'esistenza trascendente del modello: quest'ultimo, proprio in quanto trascende il processo di realizzazione, pur essendone la guida, potrà infine costituire il criterio di giudizio per misurarne la riuscita o il fallimento. Le idee diventano criteri inamovibili, «assoluti», del comportamento e del giudizio politico e morale, nello stesso senso in cui l'«idea» generica di «letto» costituisce il criterio per realizzare ogni singolo letto e giudicarne la funzionalità. Infatti non c'è grande differenza tra usare le idee come modelli, e l'usarle, in una maniera più grossolana, più rozza, come un vero e proprio metro del comportamento; nei suoi primi dialoghi, scritti sotto la diretta influenza di Platone, Aristotele già paragona «la legge più perfetta», ossia la legge che si avvicina maggiormente all'idea, al «filo a piombo, al regolo e al compasso... eccellenti fra tutti gli utensili».
Hannah Arendt, Tra Passato e Futuro
sábado, 5 de novembro de 2011
Bem e Mal
«Sabemos que o bem e o mal crescem juntos neste mundo numa quase inextricável mistura; e o conhecimento do bem está tão associado e interligado ao conhecimento do mal, tornando-se, com tantas semelhanças traiçoeiras, tão difícil discernir entre ambos, que nem aquela confusão de sementes que a Psique se viu incessantemente obrigada a joeirar e separar estaria mais caldeada. Foi da casca de uma maçã trincada que o conhecimento do bem e do mal, como um par de gémeos colados entre si, saltou para este mundo. E talvez a maldição em que Adão incorreu ao conhecer o bem e o mal tenha sido justamente essa, conhecer o bem através do mal. Considerando pois a presente condição do homem, que sabedoria pode haver na escolha, que continência na abstenção, sem o conhecimento do mal? Só aquele que é capaz de entender e considerar o vício em todas as suas seduções e aparentes prazeres, e todavia abster-se, todavia distinguir, todavia preferir o que é verdadeiramente melhor, só esse está no caminho certo para se tornar um cristão autêntico.
Não posso louvar uma virtude esquiva e enclausurada, ancilosa e abafada, que nunca avança e enfrenta o seu adversário, antes abandona furtivamente a competição em que aquela imortal coroa de louros é o troféu a conquistar, por entre lama e suor. A verdade é que, muito mais do que inocência, o trazemos é impureza a este mundo. São as provações que nos purificam, e o que nos põe à prova é o que nos é adverso. Essa virtude feita criança na contemplação do mal, que não conhece tudo o que o vício promete aos seus adeptos para só então o rejeitar, não passa, pois, de uma virtude oca e inautêntica. A sua brancura é apenas excrementícia. Eis a razão porque o nosso sábio e circunspecto poeta Spencer, que me atrevo a considerar melhor professor que Escoto ou Aquino, ao descrever a verdadeira temperança na personagem de Guion, fá-lo atravessar com o seu romeiro a caverna de Mamona e a morada da felicidade terrena, para que ele as possa ver e conhecer e, no entanto, abster-se. Uma vez, pois, que o conhecimento e a investigação do vício neste mundo são tão necessários para a constituição da virtude humana quanto o exame do erro para a confirmação da verdade, como poderemos nós com maior segurança e menor perigo explorar as regiões do pecado e da falsidade do que lendo todo o tipo de tratados e escutando todo o género de argumentos? É esse o benefício que podemos obter da leitura ecléctica de livros.»
Não posso louvar uma virtude esquiva e enclausurada, ancilosa e abafada, que nunca avança e enfrenta o seu adversário, antes abandona furtivamente a competição em que aquela imortal coroa de louros é o troféu a conquistar, por entre lama e suor. A verdade é que, muito mais do que inocência, o trazemos é impureza a este mundo. São as provações que nos purificam, e o que nos põe à prova é o que nos é adverso. Essa virtude feita criança na contemplação do mal, que não conhece tudo o que o vício promete aos seus adeptos para só então o rejeitar, não passa, pois, de uma virtude oca e inautêntica. A sua brancura é apenas excrementícia. Eis a razão porque o nosso sábio e circunspecto poeta Spencer, que me atrevo a considerar melhor professor que Escoto ou Aquino, ao descrever a verdadeira temperança na personagem de Guion, fá-lo atravessar com o seu romeiro a caverna de Mamona e a morada da felicidade terrena, para que ele as possa ver e conhecer e, no entanto, abster-se. Uma vez, pois, que o conhecimento e a investigação do vício neste mundo são tão necessários para a constituição da virtude humana quanto o exame do erro para a confirmação da verdade, como poderemos nós com maior segurança e menor perigo explorar as regiões do pecado e da falsidade do que lendo todo o tipo de tratados e escutando todo o género de argumentos? É esse o benefício que podemos obter da leitura ecléctica de livros.»
John Milton, Areopagítica, Discurso sobre a liberdade de expressão
quinta-feira, 3 de novembro de 2011
O Portugal Futuro
O Portugal futuro é um país
aonde o puro pássaro é possível
e sobre o leito negro do asfalto da estrada
as profundas crianças desenharão a giz
esse peixe da infância que vem na enxurrada
e me parece que se chama sável
Mas desenhem elas o que desenharem
é essa a forma do meu país
e chamem elas o que lhe chamarem
portugal será e lá serei feliz
Poderá ser pequeno como este
ter a oeste o mar e e espanha a leste
tudo nele será novo desde os ramos à raiz
À sombra dos plátanos as crianças dançarão
e na avenida que houver à beira-mar
pode o tempo mudar será verão
Gostaria de ouvir as horas do relógio da matriz
mas isso era o passado e podia ser duro
edificar sobre ele o portugal futuro
aonde o puro pássaro é possível
e sobre o leito negro do asfalto da estrada
as profundas crianças desenharão a giz
esse peixe da infância que vem na enxurrada
e me parece que se chama sável
Mas desenhem elas o que desenharem
é essa a forma do meu país
e chamem elas o que lhe chamarem
portugal será e lá serei feliz
Poderá ser pequeno como este
ter a oeste o mar e e espanha a leste
tudo nele será novo desde os ramos à raiz
À sombra dos plátanos as crianças dançarão
e na avenida que houver à beira-mar
pode o tempo mudar será verão
Gostaria de ouvir as horas do relógio da matriz
mas isso era o passado e podia ser duro
edificar sobre ele o portugal futuro
quarta-feira, 2 de novembro de 2011
Anna
«Vronsky seguiu o condutor e subiu ao estribo do vagão, detendo-se à entrada do compartimento para dar passagem a uma senhora que saía.
Com a sua velha experiência de homem de sociedade, bastou-lhe um olhar para compreender, pelo aspecto da desconhecida, que pertencia à alta-roda. Curvou-se e ia entrar no vagão quando sentiu necessidade de voltar a olhá-la, não atraído pela sua beleza, nem pela sua elegância, nem pela singela graça que se desprendia de toda a sua pessoa, mas apenas porque a expressão do seu rosto encantador, quando passara junto dele, se mostrara especialmente suave e delicada. No momento em que se voltou, também ele olhara para trás. Os seus brilhantes olhos cinzentos, que pareciam escuros graças às espessas pestanas, detiveram-se nele, amistosos e atentos, como se o reconhecessem, e imediatamente se desviaram para a estação, como que procurando alguém. Naquele rápido olhar, Vronsky teve tempo de lhe observar a expressão de uma vivacidade contida, os olhos reluzentes e o sorriso quase imperceptível dos lábios rubros. Parecia que algo excessivo lhe inundava o ser e, a pesar seu, transbordava ora do olhar luminoso, ora do sorriso. Não obstante ter velado intencionalmente a luz dos olhos, ela transparecia através do leve sorriso.»
Com a sua velha experiência de homem de sociedade, bastou-lhe um olhar para compreender, pelo aspecto da desconhecida, que pertencia à alta-roda. Curvou-se e ia entrar no vagão quando sentiu necessidade de voltar a olhá-la, não atraído pela sua beleza, nem pela sua elegância, nem pela singela graça que se desprendia de toda a sua pessoa, mas apenas porque a expressão do seu rosto encantador, quando passara junto dele, se mostrara especialmente suave e delicada. No momento em que se voltou, também ele olhara para trás. Os seus brilhantes olhos cinzentos, que pareciam escuros graças às espessas pestanas, detiveram-se nele, amistosos e atentos, como se o reconhecessem, e imediatamente se desviaram para a estação, como que procurando alguém. Naquele rápido olhar, Vronsky teve tempo de lhe observar a expressão de uma vivacidade contida, os olhos reluzentes e o sorriso quase imperceptível dos lábios rubros. Parecia que algo excessivo lhe inundava o ser e, a pesar seu, transbordava ora do olhar luminoso, ora do sorriso. Não obstante ter velado intencionalmente a luz dos olhos, ela transparecia através do leve sorriso.»
Lev Tolstoy, Ana Karenina
terça-feira, 1 de novembro de 2011
Stepane Arkadievitch
«Quando terminou a leitura das cartas, Stepane Arkadievitch pegou nos processos, folheou-os rapidamente, garatujou algumas notas com um lápis enorme e, pousando tudo de lado, começou a tomar o café, ao mesmo tempo que abria o jornal da manhã, ainda húmido de tinta.
Stepane Arkadievitch era leitor de um jornal liberal, não extremista, antes da tendência política a que pertencia a maioria. Embora, na realidade, não lhe interessasse nem a ciência, nem a arte, nem a política, defendia firmemente as mesmas opiniões da maioria e do jornal, só mudando de ideias quando todos o faziam, ou melhor, não mudava de ideias; estas é que se transformavam imperceptivelmente, por si mesmas.
Stepane Arkadievitch não escolhia as suas tendências nem os seus pontos de vista; estes é que vinham até ele, tal como acontecia no que respeitava ao feitio do chapéu e ao corte das roupas: usava o que estava na moda. Em virtude de pertencer a determinado círculo social e de necessitar de alguma actividade mental - coisa que geralmente se desenvolve na idade madura - era-lhe tão imprescindível possuir pontos de vista próprios como usar chapéu.»
Stepane Arkadievitch era leitor de um jornal liberal, não extremista, antes da tendência política a que pertencia a maioria. Embora, na realidade, não lhe interessasse nem a ciência, nem a arte, nem a política, defendia firmemente as mesmas opiniões da maioria e do jornal, só mudando de ideias quando todos o faziam, ou melhor, não mudava de ideias; estas é que se transformavam imperceptivelmente, por si mesmas.
Stepane Arkadievitch não escolhia as suas tendências nem os seus pontos de vista; estes é que vinham até ele, tal como acontecia no que respeitava ao feitio do chapéu e ao corte das roupas: usava o que estava na moda. Em virtude de pertencer a determinado círculo social e de necessitar de alguma actividade mental - coisa que geralmente se desenvolve na idade madura - era-lhe tão imprescindível possuir pontos de vista próprios como usar chapéu.»
Lev Tolstoy, Ana Karenina
Para além da casualidade
«Na propriedade de Lévine, um homem e uma mulher encontram-se, dois seres solitários, melancólicos. Gostam um do outro e desejam, secretamente, juntar as suas vidas. Só estão à espera de ficarem sós por momentos para o dizerem. Um dia, finalmente, encontram-se sem testemunhas num bosque onde foram apanhar cogumelos. Perturbados, ficam calados, sabendo que chegou o momento e que não o podem deixar escapar. Quando o silêncio já se prolongou demasiado a mulher, de repente, «contra a sua vontade, inopinadamente», começa a falar de cogumelos. Depois, volta o silêncio, o homem procura as palavras para a sua declaração mas, em vez de falar de amor, «por causa de um impulso inesperado»... fala igualmente de cogumelos. No regresso, continuam a falar de cogumelos, impotentes e desesperados, pois nunca, e eles sabem-no, nunca falarão de amor.
Uma vez em casa, o homem diz a si mesmo que não falou de amor por causa da sua mulher morta cuja memória ele não podia trair. Mas nós sabemos bem: é uma justificação falsa que ele só invoca para se consolar. Para se consolar? Sim. Pois resignamo-nos por perdermos um amor por uma razão. Nunca nos perdoamos por o termos perdido sem qualquer razão.
Este pequeno episódio muito belo é como a parábola de uma das maiores descobertas de Anna Karenina: o pôr em evidência o aspecto a-casual, incalculável, mesmo misterioso, da acção humana.
O que é a acção: eterna questão do romance, a sua questão, por assim dizer, constitutiva. Como nasce uma decisão? Como é que se transforma em acto e como é que os actos se encadeiam para se tornarem aventura?
Da matéria estranha e caótica da vida, os antigos romancistas tentaram abstrair o fio de uma racionalidade límpida; segundo eles, o móbil racionalmente apreensível faz nascer o acto, este provoca um outro. A aventura é o encadeamento, luminosamente casual, dos actos.»
Uma vez em casa, o homem diz a si mesmo que não falou de amor por causa da sua mulher morta cuja memória ele não podia trair. Mas nós sabemos bem: é uma justificação falsa que ele só invoca para se consolar. Para se consolar? Sim. Pois resignamo-nos por perdermos um amor por uma razão. Nunca nos perdoamos por o termos perdido sem qualquer razão.
Este pequeno episódio muito belo é como a parábola de uma das maiores descobertas de Anna Karenina: o pôr em evidência o aspecto a-casual, incalculável, mesmo misterioso, da acção humana.
O que é a acção: eterna questão do romance, a sua questão, por assim dizer, constitutiva. Como nasce uma decisão? Como é que se transforma em acto e como é que os actos se encadeiam para se tornarem aventura?
Da matéria estranha e caótica da vida, os antigos romancistas tentaram abstrair o fio de uma racionalidade límpida; segundo eles, o móbil racionalmente apreensível faz nascer o acto, este provoca um outro. A aventura é o encadeamento, luminosamente casual, dos actos.»
Milan Kundera, A Arte do romance
Opinião
«O altar da opinião é o lugar-comum. Sempre que um lugar-comum é pronunciado - os oficiantes terão à sua disposição um certo número, e não mais, de timbres e formas de linguagem, para garantir a ortodoxia cerimonial - abre-se de novo o abismo original e os elementos dividem-se. Léon Bloy sugere a definição do lugar-comum como inversão paródica de um theologoúmenon: «Sem o saberem, os burgueses mais inúteis são uns profetas tremendos, não podem abrir a boca sem abalarem os astros e os abismos da luz são imediatamente invocados pelos báratros da sua Estupidez». E as suas palavras encontram sequência em Kraus: «Aprender a ver os abismos onde existem os lugares-comuns». Flaubert, em Bouvard et Pécuchet, Bloy e Kraus confrontaram-se com este facto extraordinário, mas só Kraus pôde assistir à sua última e atroz metamorfose.
Lugares-comuns, frases feitas, são pedras da linguagem «que nos transportam à época pouco conhecida que antecede imediatamente a catástrofe. "Naquele tempo," diz o Génesis, "a terra tinha uma única língua"». O objectivo supremo da escrita sempre foi, e cito mais uma vez Mallarmé, sair das línguas «imparfeites en cela que plusieurs» e, paralelamente, descobrir nas coisas uma língua escrita e falante no silêncio, como testemunham séculos de especulações sobre os hieroglifos. Mas se, com o passar do tempo, tudo se converte em paródia, também esta doutrina, que nenhuma tradição desenvolveu como a judaica, terá de deparar com a presença actual da sua imitação. Será o nazismo a pô-la em acção. O seu modo de agir implica «o aniquilamento da metáfora»: na imagem, retraduzida numa linguagem de factos, ecoa agora o som da tortura. Foi esse o acontecimento que fez emudecer Kraus quando Hitler tomou o poder. Brecht anotou o sucedido: «Quando o Terceiro Reich foi criado / do eloquente chegou apenas uma pequena mensagem. / Num poema de dez linhas / ergueu-se a sua voz, só para lamentar / que não lhe bastava». Mas Kraus não emudeceu simplesmente, como anunciara no seu último poema, aquele a que Brecht se refere. O eloquente dedicou então o seu mais severo discurso à perda da palavra em consequência da afirmação do nazismo: escreveu Dritte Walpurgisnacht, enorme carvalho crescido na vala comum do século, divisória maciça, obra catafractária de que só se conhece o incipit, e dir-se-ia quase com razão, porque, segundo a regra do «construtor de frases», a primeira frase do livro corresponde ao seu conjunto: «A propósito de Hitler, nada me vem ao espírito». E o texto prossegue: «Bem sei que, com este fruto de prolongadas reflexões e de múltiplas tentativas de captar o acontecimento e a força que o move, fico muito aquém da expectativa, que talvez tendesse mais do que nunca para o polemista a quem o popular mal-entendido exige o que se designa por tomada de posição, já que, sempre que um mal atingia de qualquer forma a sua susceptibilidade, ele fez o que se chama «fazer testa». Mas há males perante os quais isso deixa de ser uma metáfora, e que tornam o cérebro que lhe está por detrás, e que participa de qualquer forma nessas acções, incapaz de ter um pensamento qualquer. Eu sinto-me como atingido na cabeça, e se, antes de o ser de facto, não quero considerar-me satisfeito por parecer tão emudecido como de facto estou, é porque obedeço a algo que me obriga também a prestar contas de um fracasso, a explicar a situação em que me colocou uma derrota tão completa no domínio da língua alemã, e o meu enfraquecimento pessoal por ocasião do despertar de uma nação e da instauração de uma ditadura, que hoje tudo comanda e não apenas a linguagem». Se a escrita sempre ambicionou reconduzir as metáforas à sua origem, que depois se descobre ser mais uma vez algo de impróprio, os nazis fizeram de repente algo de demasiado semelhante, com «a irrupção da frase-feita em acção». Foi este o acontecimento que, depois de ter imposto o silêncio a Kraus, o fez escrever o grandioso comentário ao seu silêncio. Quando «espalhar sal nas chagas abertas» é um facto presente e não a origem remota e não memorável de uma metáfora, quando as metáforas mortas despertam para ser aplicadas directamente sobre o corpo das vítimas, a própria metáfora desaparece e o seu fim é o espelho infernal da origem: «como o facto ocorreu, a palavra deixa de ser utilizável». Finalmente, «o sangue escorre da crosta das frases feitas» e a palavra cala-se. «É esse - na nova fé, que porém não se apercebe disso - o milagre da transubstanciação».
Lugares-comuns, frases feitas, são pedras da linguagem «que nos transportam à época pouco conhecida que antecede imediatamente a catástrofe. "Naquele tempo," diz o Génesis, "a terra tinha uma única língua"». O objectivo supremo da escrita sempre foi, e cito mais uma vez Mallarmé, sair das línguas «imparfeites en cela que plusieurs» e, paralelamente, descobrir nas coisas uma língua escrita e falante no silêncio, como testemunham séculos de especulações sobre os hieroglifos. Mas se, com o passar do tempo, tudo se converte em paródia, também esta doutrina, que nenhuma tradição desenvolveu como a judaica, terá de deparar com a presença actual da sua imitação. Será o nazismo a pô-la em acção. O seu modo de agir implica «o aniquilamento da metáfora»: na imagem, retraduzida numa linguagem de factos, ecoa agora o som da tortura. Foi esse o acontecimento que fez emudecer Kraus quando Hitler tomou o poder. Brecht anotou o sucedido: «Quando o Terceiro Reich foi criado / do eloquente chegou apenas uma pequena mensagem. / Num poema de dez linhas / ergueu-se a sua voz, só para lamentar / que não lhe bastava». Mas Kraus não emudeceu simplesmente, como anunciara no seu último poema, aquele a que Brecht se refere. O eloquente dedicou então o seu mais severo discurso à perda da palavra em consequência da afirmação do nazismo: escreveu Dritte Walpurgisnacht, enorme carvalho crescido na vala comum do século, divisória maciça, obra catafractária de que só se conhece o incipit, e dir-se-ia quase com razão, porque, segundo a regra do «construtor de frases», a primeira frase do livro corresponde ao seu conjunto: «A propósito de Hitler, nada me vem ao espírito». E o texto prossegue: «Bem sei que, com este fruto de prolongadas reflexões e de múltiplas tentativas de captar o acontecimento e a força que o move, fico muito aquém da expectativa, que talvez tendesse mais do que nunca para o polemista a quem o popular mal-entendido exige o que se designa por tomada de posição, já que, sempre que um mal atingia de qualquer forma a sua susceptibilidade, ele fez o que se chama «fazer testa». Mas há males perante os quais isso deixa de ser uma metáfora, e que tornam o cérebro que lhe está por detrás, e que participa de qualquer forma nessas acções, incapaz de ter um pensamento qualquer. Eu sinto-me como atingido na cabeça, e se, antes de o ser de facto, não quero considerar-me satisfeito por parecer tão emudecido como de facto estou, é porque obedeço a algo que me obriga também a prestar contas de um fracasso, a explicar a situação em que me colocou uma derrota tão completa no domínio da língua alemã, e o meu enfraquecimento pessoal por ocasião do despertar de uma nação e da instauração de uma ditadura, que hoje tudo comanda e não apenas a linguagem». Se a escrita sempre ambicionou reconduzir as metáforas à sua origem, que depois se descobre ser mais uma vez algo de impróprio, os nazis fizeram de repente algo de demasiado semelhante, com «a irrupção da frase-feita em acção». Foi este o acontecimento que, depois de ter imposto o silêncio a Kraus, o fez escrever o grandioso comentário ao seu silêncio. Quando «espalhar sal nas chagas abertas» é um facto presente e não a origem remota e não memorável de uma metáfora, quando as metáforas mortas despertam para ser aplicadas directamente sobre o corpo das vítimas, a própria metáfora desaparece e o seu fim é o espelho infernal da origem: «como o facto ocorreu, a palavra deixa de ser utilizável». Finalmente, «o sangue escorre da crosta das frases feitas» e a palavra cala-se. «É esse - na nova fé, que porém não se apercebe disso - o milagre da transubstanciação».
Roberto Galasso, Os Quarenta e nove degraus
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